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LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE NEL DIBATTITO INTERNAZIONALE SUI DIRITTI UMANI - di Chiara Ingrao

Ultimo Aggiornamento: 09/03/2006 00:08
09/03/2006 00:08
 
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LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE NEL DIBATTITO INTERNAZIONALE SUI DIRITTI UMANI


Quaranta anni di silenzio

Mentre l’affermazione del diritti all’eguaglianza e il divieto di discriminazione sono parte integrante del sistema dei diritti umani sin dagli inizi, il tema della violenza contro le donne entra nel dibattito internazionale su questi temi solo molto tardi - sostanzialmente negli ultimi dieci anni - e ancora oggi incontra resistenze e conflittualità.

La Convenzione CEDAW, che è il principale trattato internazionale in materia di diritti umani delle donne, non contiene norme esplicite sul dovere degli stati di combattere la violenza contro le donne. Nel 1979, in realtà, tale termine non compare neanche nel testo della Convenzione.

Nei 10 anni che seguono, i movimenti delle donne, di cui la convenzione CEDAW è certamente figlia, dedicano sempre più attenzione al tema della violenza contro le donne. In Italia, ricordiamo il lungo percorso dalle manifestazioni notturne seguite allo "stupro del Circeo", e caratterizzate dallo slogan suggestivo "riprendiamoci la notte", alla presenza nelle aule di tribunale dove le donne vittime di violenza si trovano di fatto trattate come imputate, alla legge di iniziativa popolare divenuta legge solo venti anni dopo, alla creazione di centri anti-violenza in cui potessero trovare rifugio anche le donne vittime di violenza domestica.

Fenomeni analoghi crescono in tutto il mondo, e chiedono parola e visibilità anche sulla scena internazionale. Come sempre, le prime a rispondere sono le donne stesse: quel Comitato CEDAW, che oltre ad avere il compito di vigilare sull’applicazione della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, è anche l’unico dei "comitati di controllo" dell’ONU ad essere interamente composto da donne, e quasi tutte attive nella società civile e nei movimenti. Esattamente dieci anni dopo l’adozione della convenzione, nel 1989, il Comitato CEDAW stila la Raccomandazione Generale n.12, nella quale si invitano gli stati, nei loro rapporti periodici, a fornire informazioni sulle leggi e le iniziative a livello nazionale per tutelare le donne da ogni forma di violenza nella vita quotidiana — compresa la violenza sessuale, la violenza domestica, le molestie, ecc. — e per fornire loro assistenza e servizi.

Ci vollero ancora altri due anni perché il Consiglio Economico e Sociale dell’ONU desse l’incarico al Comitato stesso di contribuire a stilare uno "strumento internazionale" sulla violenza contro le donne, e altri due anni di negoziato sul testo da adottare, modellato in buona parte sui contenuti di una seconda Raccomandazione del CEDAW (Raccomandazione generale n.19, 1992).


La Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne

Nella Conferenza di Vienna sui diritti umani del 1993, le associazioni delle donne, insieme alle donne dei governi e delle organizzazioni internazionali, riescono finalmente ad ottenere due risultati importanti: l’impegno a varare la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, poi adottata dall’Assemblea generale il 20 dicembre 1993, e l’istituzione di una Relatrice speciale sulla violenza contro le donne, che sarà poi scelta nella persona di Radika Coomaraswamy.

La Dichiarazione fornisce per la prima volta una definizione ampia della violenza contro le donne, definita come "qualunque atto di violenza sessista che produca, o possa produrre, danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, ivi compresa la minaccia di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata." La Dichiarazione afferma che la violenza contro le donne comprende, ma non è limitata a, la violenza fisica, psicologica e sessuale che avviene in famiglia e nella comunità in generale, incluse le percosse, l’abuso sessuale sulle bambine, la violenza per questioni di dote, lo stupro coniugale, le mutilazioni genitali femminili e le altre pratiche tradizionali che arrecano danno alle donne; la violenza legata allo sfruttamento, alle molestie ed alle intimidazioni sul lavoro, nelle istituzioni scolastiche ed altrove; la tratta di donne; la prostituzione forzata; e la violenza perpetrata o tollerata dallo Stato. Sulle voci da aggiungere o meno alla lista, il dibattito internazionale continua, ed è tuttora acceso.

Negli anni seguenti, il tema della violenza contro le donne ritorna centrale nella Conferenza di Pechino, e poi nel dibattito della Commissione donne dell’ONU, della Commissione diritti umani, dell’Assemblea generale, fino alla stessa Assemblea del Millennio, che nella sua Dichiarazione finale pone la lotta alla violenza delle donne come uno degli obiettivi centrali delle Nazioni Unite del 2000.

E’ un dibattito che non resta nel chiuso del Palazzo di Vetro a New York. I testi adottati, i Rapporti e le numerosissime iniziative della relatrice speciale, le campagne e i progetti finanziati dall’UNIFEM e da altre agenzie ONU, stimolano la revisione legislativa e la modifica degli atteggiamenti di molti governi ed istituzioni regionali; nel 1997 lancia una forte iniziativa contro la violenza il Parlamento europeo, e ad essa segue il finanziamento di numerosi progetti europei su questi temi.


La violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani: o no?

Nonostante tutto ciò, nessuno degli strumenti internazionali adottati, nè le risoluzioni, nè i rapporti della relatrice speciale, e nemmeno la Dichiarazione contro la violenza e la Piattaforma di Pechino, ha valore giuridicamente vincolante.

Certamente, il divieto di ogni atto di violenza è implicito in tutti i trattati internazionali sui diritti umani: basti pensare al diritto alla libertà e sicurezza della persona sancito dal Patto sui diritti civili e politici, al divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti, a tutta l’impostazione della Convenzione CEDAW.

Tuttavia, come si è detto, nè la CEDAW nè nessun altro di questi testi citra esplicitamente la violenza contro le donne: al contrario, l’appartenenza di questo tema alla sfera dei diritti umani è ancora contestata da molti.

Il nodo è un nodo generale e di fondo, che riguarda tutto il dibattito sui diritti umani: quello della responsabilità degli stati rispetto alle violazioni compiute da soggetti privati, non statali. Per molto tempo, infatti, si è ritenuto che l’universalità dei diritti umani fosse un principio generale, ideale, ma che la sua realizzazione pratica, nel diritto internazionale, riguardasse solo l’azione diretta degli stati in quanto tali.

Gli stati che ratificano una convenzione internazionale sui diritti umani, insomma, assumerebbero con quell’atto solo la responsabilità di non commettere direttamente violazioni dei diritti in esso sanciti, e di promuoverne il rispetto; ma quanto alle violazioni, verrebbero considerate violazioni dei diritti umani solo quelle compiute direttamente dallo stato o dai suoi rappresentanti e agenti. In altre parole, la tortura o lo stupro di una detenuta da parte dei suoi carcerieri sarebbe sì una violazione dei diritti umani; ma non lo sarebbero gli stessi atti compiuti da un marito nei confronti della moglie, di un padre sulla figlia, di uno sconosciuto su una passante in strada — nemmeno se tali atti vengono compiuti in condizioni di segregazione identiche a quelle del carcere.

E’ la concezione più tradionale, e antica, dei diritti umani: quella ad esempio che considera prioritari, e direttamente rivendicabili di fronte ad un tribunale, solo i diritti politici e civili, mentre i diritti economici, sociali e culturali avrebbero un valore più che altro esortativo, ma non di giustiziabilità diretta. Come ricorda Savitri Goonesekere, nel saggio Il rispetto dei diritti come strumento fondamentale per realizzare l'eguaglianza fra i sessi, "I diritti civili e politici sono definiti "diritti forti", che si possono far valere direttamente in tribunale, e che impongono agli Stati doveri negativi di riconoscimento, tutela e non interferenza. Per contro, i diritti economici e sociali sono considerati "diritti deboli", diritti che impongono agli Stati doveri positivi che possono essere meglio realizzati agendo gradualmente, tramite lo stanziamento di risorse e la pianificazione di interventi amministrativi, più che tramite le sentenze dei tribunali".

In questo approccio, la violenza compiuta dai privati, pur essendo certamente più attinente ai diritti civili che a quelli economici, viene considerata anch’essa materia non appartenente ai diritti umani, in quanto non compiuta dallo stato. Certo essa non viene affatto condonata: viene considerata grave, esecrabile, illegale, ma solo nell’ambito del diritto nazionale, e non del diritto internazionale sui diritti umani. Ogni stato, dunque, avrebbe sovranità indiscutibile su quali azioni definire reato e quali no, e come punire tali reati; la comunità internazionale, nonostante tutte le sue dichiarazioni universali, non avrebbe titolo di intervenire su tali scelte sovrane, neanche laddove esse comportano (come nel caso, ad esempio, della inesistenza del reato di stupro coniugale o di violenza domestica, o delle attenuanti per delitto d’onore) la sostanziale impunità degli aggressori, e dunque l’impossibilità della persona colpita di esercitare il proprio diritto alla libertà e alla sicurezza della persona, o lo stesso diritto alla vita.


Responsabilità dei privati/responsabilità degli stati

Nella critica a questa visione tradizionalista dei diritti umani, la questione della violenza contro le donne, per sua natura storicamente esercitata soprattutto nella sfera privata, diviene così, chiaramente, la più centrale, la più simbolica, e insieme la più concreta.

Nell’evoluzione più moderna del diritto internazionale dei diritti umani, infatti, i doveri che assumono su di sè gli stati con l’adesione ad un trattato internazionale sui diritti umani sonoi definiti in senso sempre più ampio, nelle tre categorie di:

Rispettare, dunque non violare direttamente i diritti umani
Tutelare, dunque impedire che essi vengano violati
Realizzare, dunque operare attivamente perchè l’esercizio dei diritti umani divenga realtà.
Da questo punto di vista, la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne è forse il testo più esplicito e più avanzato, in quanto afferma esplicitamente che gli stati si impegnano a "prendere ogni misura adeguata per eliminare la discriminazione contro le donne da parte di qualsivoglia persona, organizzazione o impresa".

Questa espressione viene ricordata sia dalla Raccomandazione n.19 del Comitato CEDAW, per spiegare che rientrano nell’ambito della Convenzione anche atti non direttamente compiuti dagli stati, e che gli stati devono esercitare una "debita diligenza" nel prevenirli e punirli, che dalla Dichiarazione del 1993, che affermache gli stati dovranno: "esercitare la debita diligenza nel prevenire, indagare e punire, ai sensi della legislazione nazionale, gli atti di violenza contro le donne, siano essi compiuti dallo Stato o da soggetti privati." Il problema naturalmente, sta in quel riferimento "ai sensi della legislazione nazionale", pur seguito da un invito agli stati stessi a "introdurre nella legislazione nazionale sanzioni penali, civili, amministrative e relative al diritto del lavoro, per punire e porre rimedio ai torti fatti alle donne che hanno subito violenza".

Insomma, su questi temi, lo scontro è rimasto acceso per molti anni, e non si è ancora concluso.


Da Pechino a "Pechino+5"

Nella Piattaforma di Pechino (par.112) il legame fra violenza contro le donne e diritti umani è stato ulteriormente ribadito, affermando che "la violenza contro le donne costituisce una violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali delle donne e pregiudica o annulla il loro godimento di tali diritti e libertà". Un concetto poi ripreso anche nel Documento finale di "Pechino+5" (par.13), che inoltre, nel valutare lo stato di applicazione della Piattaforma di Pechino, afferma:

"E’ ampiamente accettato che la violenza contro le donne, che si verifichi nella vita pubblica o in quella privata, è una questione che attiene ai diritti umani. E’ accettato che la violenza contro le donne, laddove perpetrata o condonata dallo stato o dai suoi agenti, costituisce una violazione dei diritti umani. E’ inoltre accettato che gli stati hanno l’obbligo di esercitare la debita diligenza nel prevenire, indagare e punire gli atti di violenza, siano essi perpetrati dallo stato o da soggetti privati, e di fornire protezione alle vittime"

Insomma, un linguaggio che ancora porta l’eco delle controversie, e della riluttanza della comunità internazionale a porre sullo stesso piano tutti gli abusi, da chiunque commessi. E’ contemporaneamente, un dibattito non solo virtuale, ma che incide sulla possibilità delle donne di tanti paesi di avere forza e argomenti in più per cambiare le proprie leggi nazionali, per incidere sugli orientamenti dell’opinione pubblica e sul senso comune.

Nello stesso documento finale di Pechino+5 le donne hanno "portato a casa" l’impegno dei governi a "trattare tutte le forme di violenza contro le donne e le bambine come reati penali punibili dalla legge, compresa la violenza fondata su qualsivoglia forma di discriminazione"; e il riconoscimento, per la prima volta in un documento internazionale, dei "delitti commessi in nome dell’onore", dei "delitti commessi in nome della passione" e degli "attacchi con l’acido" come alcune delle forme che prende la violenza contro le donne, e che dunque vanno puniti. Solo pochi mesi dopo, nell’Assemblea generale dell’autunno, una risoluzione sui delitti d’onore promossa dai Paesi Bassi non riusciva ad ottenere l’unanimità, e veniva adottata solo a maggioranza; mentre Algeria, Egitto e Pakistan promuovevano una risoluzione sulla violenza contro le donne che implicitamente rimetteva in discussione l’impegno degli stati a considerarla e punirla come reato. Dopo lunghi negoziati, la risoluzione è stata modificata, e l’impegno è ancora lì, come una sfida da realizzare. Difficile, non scontata, concreta solo se praticata nella realtà e attraverso il conflitto: ma, come tutto ciò che riguarda il sistema dei diritti umani, è una sfida che ha un senso, nel mondo della globalizzazione e dei poteri transnazionali. Perché, come ricorda la Prof.ssa Goonesekere, "I diritti umani sono fonte di diritto. A differenza di altre rivendicazioni o aspirazioni sociali, i diritti umani hanno validità giuridica, oltre ad avere forza morale". Vale la pena di far valere anche questa forza, nel villaggio globale.


di Chiara Ingrao
Fonte: AIDOS


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