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Il silenzio dell'innocenza, Somaly Mam

Ultimo Aggiornamento: 16/11/2006 10:43
16/11/2006 10:39
 
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L’ex bambina dei bordelli ...

MADRID - L’ex bambina dei bordelli cambogiani è arrivata fino alla corte di Sofia di Spagna. Ogni volta che bussa alla porta dei potenti del mondo - e ogni volta che quella porta si apre - sa che qualche altra ragazzina, nei quartieri a luci rosse di Phnom Penh, sta per riacquistare la libertà.


Per scardinare le gabbie delle piccole schiave ci vogliono soldi, aiuti, organizzazione, pressione politica. In dieci anni Somaly Mam ha liberato più di tremila bambine. Butta indietro i capelli corvini e dice: «Non mi fermerò mai, l’ho promesso». Le piace parlare del futuro per sfuggire al passato: un nodo mai sciolto completamente.


Del passato ricorda il fango «della provincia Pnong», Mondulkiri, la più miserabile della Cambogia, «il selvaggio Est» a 300 chilometri dalla capitale. Dei genitori, nessuna memoria. Rammenta invece molto bene «un vecchio» - «diceva di essere mio nonno ma non lo era» - che la prende per mano nemmeno adolescente e la vende quattro volte: «Prima a tre mariti, due o tre mesi per ciascuno, allora non c’erano i bordelli, e quella era la prostituzione, da noi. Dopo il terzo marito avevano aperto i bordelli, e mio nonno mi ha venduta a uno di quelli della città: avevo quattordici anni, forse; quando lui è morto, e sono scappata, diciotto, forse».


Poi vorrebbe smettere di ricordare: «Ho visto le mie compagne torturate a morte, mi hanno pestata tante volte, ogni volta che ci ripenso ci metto una o due settimane per uscirne, erano tre anni che non ne parlavo», sbotta infine. Con questa storia cucita sottopelle, Somaly parte spesso dalla sua casa di Phnom Penh e gira il mondo dando una voce e una faccia - la sua - alle bambine che sono com’era lei, addestrate a elettroshock e frustate: piccoli automi che vagano a Svay Pak o Toul Kork, nei quartieri dei bordelli, mimando il sesso e promettendo a turisti pedofili «very good boom-boom», «very nice yum-yum».


In una conferenza a Bilbao, un anno fa, ha detto: «Se ce l’ho fatta io, vuol dire che anche quelle bambine possono farcela. Lo dico a coloro che le respingono. Non c’è miglior prova della mia esperienza per dimostrarvi dove possono arrivare». Perché adesso Somaly è un volto da manifesto («Venite alla marcia contro lo sfruttamento di donne e bambini», incita dal poster appeso alle sue spalle), una splendida donna ancora giovane («avrò trentaquattro, forse trentasei anni, come avrà capito non ho mai saputo quando sono nata...»), occhi scintillanti, mamma felice di tre bambini. Fino ai diciotto anni non aveva mai tenuto un libro in mano: adesso parla quattro lingue ed è la testimonial di se stessa.


La incontriamo a Madrid, in una delle sedi europee dell’organizzazione che ha creato assieme al marito Pierre Legros: la Afesip («Agir pour les femmes en situation précarie»). Nel ’98 ha vinto il premio Principe di Asturias per la cooperazione assieme a donne famose come Rigoberta Menchu e Emma Bonino. Ora c’è chi dice che potrebbe correre per il Nobel. A Madrid la regina Sofia la riceve ogni anno, «da quando mi hanno dato il premio: è una persona molto semplice e molto umana. Grazie a lei, la cooperazione spagnola fa moltissimo per Afesip». Dal fosso di Mondulkiri, la piccola schiava ha scalato il cielo.


Il primo gradino della risalita è stato Pierre, suo marito («mi ha spiegato la verità e mi ha dato la libertà», ha detto lei un giorno). Somaly era appena sfuggita al bordello dove l’aveva incatenata il «nonno» quando ha incontrato questo giovane biologo di «Medecins sans frontières» che l’ha portata in Francia, le ha curato il corpo e salvato l’anima, è tornato con lei in Cambogia e le sta accanto da allora, col batticuore, perché s’è tramutato nel Sancho Panza di questa Don Chisciotte esile e inflessibile: «I padroni dei bordelli hanno bruciato la nostra casa a Phnom Penh per punirci. Io sono dovuta scappare in Laos. Mi hanno puntato la pistola alla testa un sacco di volte e io ho sempre detto: spara! Non mi hanno sparato. Però Pierre un po’ s’è spaventato, sì, voleva rimandarmi in Francia: io gli ho detto "mai!", o mi accettava così o divorziavamo. Stiamo ancora insieme (ride, nda ). La vita è molto corta, bisogna fare qualcosa per noi e per gli altri». La guerra di Somaly non è fatta di proclami.


Uscita dai bordelli come prostituta, ci è tornata come agit prop, come grimaldello. «Dal ’94 al ’98 ne ho girati centinaia. Dicevo ai protettori che facevo l’infermiera, mentivo, portavo i preservativi alle ragazze ma soprattutto volevo parlare con loro. A volte io e Pierre avevamo i dollari per riscattarle, a volte abbiamo organizzato la loro fuga, le abbiamo portate a casa nostra».


«Per anni abbiamo lavorato da soli, Pierre, io e Eric Merman, un nostro amico olandese. Il premio Asturias è servito perché adesso non siamo più soli. Ci aiutano in tanti, anche l'Unicef. Molti sono italiani, Emma Bonino ha fatto moltissimo. Poi Marco Scarpati, con la sua Ecpat Italia. E i Nomadi, sì, la band: sono amici nostri, sono venuti tre volte in Cambogia, e con i loro soldi abbiamo aperto il centro Afesip in Vietnam e stiamo per aprirlo nel Laos».


La guerra è fatta di cento piccole battaglie: «C’è il lavoro nei bordelli, spesso sotto copertura: convincere le ragazze che se vogliono uscirne una strada c’è. Ci sono le investigazioni contro i protettori e i trafficanti di carne umana, cerchiamo il poliziotto giusto, il giudice non corrotto che possa intervenire. Ci sono i centri di riabilitazione: ne abbiamo tre a Phnom Penh, due in provincia, con gli psicologi, perché le ragazze abusate diventano spesso molto violente, e i medici, perché il 100 per cento di loro ha malattie veneree. Poi serve istruzione, l’addestramento a un lavoro regolare. Abbiamo aperto una fabbrica di tessuti dove trovano lavoro. Quelle che stanno morendo di Aids spesso tornano da noi, per morire al centro, perché non vogliono morire a casa loro, dove ci sono a volte quelli che le hanno vendute».


«Il problema principale è la corruzione. Prima di tutto dei giudici, che sono bestialmente corrotti, molto più dei poliziotti. Ho visto un giudice che, davanti a una bambina di 7 anni e all’uomo che l’aveva stuprata, dava torto alla bambina e ragione all’uomo. Abbiamo tirato fuori dal bordello quattordici bambine vietnamite dai 10 ai 13 anni e il giudice le ha messe in carcere perché erano immigrate illegalmente dal Vietnam: in carcere le hanno stuprate». Somaly è sotto scorta, a Phnom Penh rischia la pelle di continuo: molti politici cambogiani fanno i soldi sulla prostituzione. «Ma le cose cambieranno. Tra cento anni, però cambieranno. Voi potete aiutarci. Con una legge extraterritoriale che incastri i pedofili: sì, quelli che vengono da noi, fanno quello che fanno e poi se la svignano comprandosi un giudice: dovete arrestarli a casa vostra». «Un sogno? Che le donne abbiano più potere. E che gli uomini capiscano le donne. Siamo come le ali e il corpo di una rondine, abbiamo bisogno le une degli altri. Conta solo l’amore». Ogni volta che una bambina torna libera, si avvera un po’ del sogno di Somaly.


di Goffredo Buccini

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