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La violenza da fiducia

Ultimo Aggiornamento: 15/11/2006 05:14
15/11/2006 05:14
 
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La gran parte delle aggressioni violente si verificano tra persone che hanno una qualche forma di rapporto, da quello di amicizia a quello di parentela. Sono, cioè, violenze che si consumano, non di rado per lungo tempo, all'interno di relazioni fiduciarie in cui per naturale inclinazione si è portati ad affidarsi a qualcuno, nel senso di fidarsi, cioè sentirsi al sicuro, al riparo. E' proprio questa circostanza che rende opaca la visibilità sociale di questo fenomeno. La rende opaca e, insieme, indicibile. Perciò non riconoscibile.

Ma oggi possiamo parlarne, dobbiamo farlo. Le testimonianze delle donne chiedono un resoconto agli uomini, a noi uomini, che non può più essere differito. E' un loro diritto ed è un nostro dovere scrivere quel resoconto con i comportamenti, con i fatti. Noi uomini, di fronte a tale fenomeno, anche se non siamo direttamente coinvolti e attori in prima persona di comportamenti violenti, molto spesso (quasi sempre?) chiudiamo gli occhi, facciamo come se il problema non esistesse. Ci comportiamo come se il problema fosse solo delle donne, al massimo di qualche uomo già segnato dallo stigma della devianza, della malattia o della esclusione sociale.

Purtroppo (per le donne ma anche per gli uomini) non è così. Anche le ultime indagini ci dicono che la gran parte degli episodi di violenze contro le donne sono esercitate da uomini al di sopra di ogni sospetto, da uomini come noi, uomini qualunque, uomini "normali". Parlarne non basta, ma è il primo indispensabile passo per dirci come mai il genere maschile attiva tali comportamenti nei confronti dell'altro genere, quello femminile, con cui condivide la storia quotidiana delle relazioni, della socialità, della vita che cresce.

In generale gli uomini hanno paura di fare tutto ciò. Noi uomini abbiamo paura. Forse il timore è di perdere una parvenza di potere di supremazia di giudizio e di valutazione? Forse il timore è di ritrovarci come un "re nudo" di fronte ai propri limiti ed alle proprie responsabilità? Forse è la percezione sottile che stabilire rapporti di reciprocità con le donne è ben più faticoso dei rapporti di potere? Se pensassimo alla ricchezza delle diversità che si incontrano forse comprenderemmo meglio l'arida e apparente tranquillità delle diversità che si escludono.

La violenza alle donne non è solo un fatto personale, privato, individuale. E' un fatto sociale il cui conto appartiene al genere maschile, non a quello femminile. Le violenze da fiducia sono le peggiori perché tradiscono alle origini un sentimento che appartiene alle origini delle relazioni e alla loro stessa possibilità di essere vita.

Quali sono gli elementi che caratterizzano in particolare le violenze da fiducia?
- Il primo è quello della trasversalità del fenomeno che non obbedisce alle logiche della stratificazione sociale. Esso, infatti, riguarda autori appartenenti a livelli tanto medio-bassi quanto medio-alti delle condizioni socio-culturali e dello status sociale.
- Il secondo elemento è quello della continuità nel tempo. Tale continuità, peraltro, risulta tanto più erosiva dell'autostima femminile in quanto alterna le violenze alle 'petizioni' di "perdono" da parte dell'uomo che, inevitabilmente, creano per la donna una spirale quotidiana di attese e di smentite, di speranze e di disillusioni.
- Il terzo elemento è quello della concomitanza con altre forme di violenza, quali le lesioni, le percosse, le minacce, che compaiono contestualmente alla violenza primaria. In particolare per la violenza sessuale essa non si rappresenta quasi mai come esito di un comportamento attivato in preda a raptus improvvisi o incontrollabili.
- Infine, il quarto elemento è quello della durata. Lunga, spesso la sua conclusione coincide con l'età adulta dei figli e delle figlie e con la loro emancipazione esistenziale ed economica. Ma il percorso è sempre accidentato dalle collusioni strumentali che i padri violenti attivano rispetto ai figli e che le donne-madri vivono come un esito ancora peggiore delle violenze esercitate direttamente sulla propria persona.

Siamo di fronte, dunque, alla espressione di un clima relazionale di violenze ordinarie della vita quotidiana. Violenze di fronte alle quali la decisione di interrompere quel rapporto, anche quando compare, non si configura quasi mai per la donna come un atto improvviso o praticato a fronte delle prime manifestazioni di violenza del partner. Infatti, si ritrovano sempre tracce di attesa da parte della donna nella speranza di un cambiamento nel comportamento del marito. Cambiamento puntualmente disatteso. Ciò che si propone quasi come una costante è la disponibilità femminile a provare di nuovo, a offrire all'uomo una ulteriore chance di revisione del proprio modo di agire.

E' una sorta di sospensione fiduciaria, ancora una volta la "fiducia", che in molti casi diventa una condizione definitiva di rapporto, un percorso senza ritorno e senza apparenti vie di uscita. Un vincolo relazionale sempre più difficile da recidere.

Non c'è un prima e un dopo l'episodio di violenza. C'è una pendolarità distruttiva che alterna la violenza verbale al maltrattamento fisico, la sessualità violenta alla violenza sessuale, la comunicazione oltraggiosa e offensiva al silenzio pieno. Silenzio che è un macigno di indifferente aggressività, una estraneità totale verso la relazione e un misconoscimento dell'altra come soggetto. E' proprio questa pendolarità costante tra la visibilità e la non visibilità della violenza, tra la sua trasparenza e la sua inafferrabilità, che produce anche motivi e occasioni di ambivalenza nello stesso comportamento femminile la cui espressione più forte probabilmente risiede proprio in quei lunghi anni di attesa e di sofferenza prima di poter dire "basta". Decisione che, ovviamente, risulta difficile da assumere per una pluralità di vincoli ai quali la donna è legata.

Si tratta di quei vincoli che pregiudicano, almeno inizialmente, l'attivazione di un percorso che parrebbe razionalmente risolutivo ma che impone una elaborazione di un "lutto", di uno scacco che riguarda la propria identità, la propria immagine, innanzitutto rispetto a se stessa, oltre che rispetto ad una costruzione sociale che invoca la rappresentazione dell'ordine familiare, non quella del suo contrario.
Forse è anche per questo motivo che in tutte le ricerche e le testimonianze riusciamo a cogliere, a dispetto di un certo buon-manierismo ancora dominante, una latente "verità" secondo cui le donne "vittime" delle violenze da parte dei partner tendenzialmente pongono come prioritario nell'ordine delle rilevanze il desiderio che quella relazione non sia violenta, non la decisione di porre fine alla stessa o di denunciare l'uomo. Finché possono, ovviamente.

Un altro vincolo è relativo alla perseveranza quasi ostinata nel volere assumere su di sé e ricercare dentro di sé, specie nella fase iniziale della violenza, le ragioni del comportamento maschile, come a volerne comunque condividere le responsabilità.

Infine, ma non certo ultimo motivo, anzi forse in qualche modo esso rappresenta la ragnatela dei vincoli, è la percezione forte, anche se non sempre chiara in tutte le sue composizioni e sfumature, che la decisione della denuncia o della chiusura definitiva del rapporto rappresenta il sigillo, la certificazione insieme sociale e soggettiva, pubblica e privata, di un pesante scacco del pensiero e dei sentimenti da gestire, ed elaborare, innanzitutto per sé e di fronte a sé. E questo è lo scacco della dissociazione, difficile da ricomporre, tra il proprio sé e il sé che viene riflesso dalle relazioni che si vivevano come le più significative, per sé, appunto: quella col proprio coniuge, quella con i figli e le figlie e quella, insieme, con questi ultimi e con il partner.

Carmine Ventimiglia

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