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Mehrangiz Kar

Ultimo Aggiornamento: 14/11/2006 08:41
14/11/2006 08:41
 
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Intervista a Mehrangiz Kar
di Farian Sabahi - 8 marzo 2006

«I finanziamenti degli Stati Uniti agli attivisti iraniani
rischiano di essere controproducenti. A Teheran i conservatori potrebbero prendere questi finanziamenti a pretesto per accusare di spionaggio gli esponenti della società civile», dichiara l’avvocatessa iraniana Mehrangiz Kar bocciando l’iniziativa del segretario di Stato americano Condoleezza
Rice che ha chiesto 75 milioni di dollari al Congresso per l’opposizione iraniana, quindici dei quali destinati a gruppi che promuovono i diritti umani. Sessantadue anni, Mehrangiz Kar lotta da sempre per la democrazia nel suo paese e, proprio per questo, è stata condannata dalla magistratura
iraniana a quattro anni di carcere. Ora vive a Boston e insegna a Harvard.

Come può contribuire la comunità internazionale alla
sicurezza di coloro che, in Iran, lottano per maggiori diritti?

Dovreste pensare un po’ meno al nucleare e un po’ più ai
diritti umani. Gli attivisti rischiano molto, soprattutto ora che è stato eletto alla presidenza l’ultraconservatore Ahmadinejad. Purtroppo anche durante il periodo riformista non si è potuto fare influire granché sulla legislazione
in vigore in Iran, sulle attività del parlamento e sulle decisioni del Consiglio dei Guardiani. Con il riformatore Khatami non ci sono stati cambiamenti né nel codice penale iraniano né nel diritto di famiglia, in cui sono discriminati le donne e i non musulmani.

Perché Khatami non ha potuto mettere in atto le riforme promesse e tanto attese?
Non ne ha avuto il coraggio, Khatami non ha voluto
rischiare perché il vero potere è sempre stato nelle mani della destra.
Inoltre, la costituzione iraniana non si può emendare e il Consiglio dei Guardiani, anch’esso conservatore, ha il diritto di veto sulle leggi promulgate dal parlamento.
Lei è stata in carcere proprio durante il primo mandato
presidenziale di Khatami, che cosa è successo?
Nell’aprile del 2000 partecipai a una conferenza sul futuro
dell'Iran, organizzata a Berlino dalla fondazione Heinrich Böll. Al mio rientro fui arrestata, insieme a diciassette esponenti della società civile, alcuni membri del clero, altri laici. La discussione verteva sul movimento riformista: a febbraio era stato eletto un parlamento in cui la maggioranza
dei deputati aderiva al partito di Khatami. Ci auguravamo che i deputati potessero votare nuove leggi, nel rispetto dei diritti umani. Dissi che gli ostacoli alle riforme sono nella costituzione e quindi occorre emendare la costituzione. Fui arrestata per queste affermazioni e per avere agito contro
l’interesse nazionale.

Quanto tempo è stata in carcere?
Meno di due mesi, sempre in cella d’isolamento, notte e
giorno. Durante gli interrogatori mi ponevano domande che non avevano nulla a che vedere con la conferenza di Berlino. Avevo 57 anni, ma mi chiedevano di quando ne avevo ventiquattro, di articoli scritti al tempo dello scià, tanti anni prima della rivoluzione. Ero sorpresa: sono un’avvocatessa, ho esercitato per oltre vent’anni e i miei clienti mi avevano riferito di interrogatori strani ma stentavo a crederci. Quando ti arrestano, oppure quando i servizi segreti ti rapiscono, vogliono farti confessare e costruire un dossier contro di te. La magistratura non rispetta la legge e può impedire all’avvocato difensore di comparire in tribunale. Gli accusati si ritrovano soli di fronte al giudice, sono torturati, subiscono pressioni.
Nessuno è testimone di queste malefatte e la magistratura ottiene tutto ciò che vuole.

Durante i due mesi in carcere lei ha subito violenza?
Non sono stata torturata nel corpo ma nella mente. Mi
minacciavano e a ferirmi fu la pressione esercitata su mio marito Siamak, che ha tredici anni più di me, e sulla figlia più piccola, convocati dal giudice in tribunale anche se non mi avevano accompagnato alla conferenza di Berlino. Portarono mio marito in un’altra stanza, lo interrogarono, ma lui non c’entrava nulla.

Lei è uscita di carcere pagando una cauzione?
Sì. Mentre ero in carcere mi resi conto di avere un tumore
al seno. Mi sottoposi a un intervento chirurgico radicale, feci la chemioterapia e la radioterapia. Fui condannata a quattro anni di carcere e solo grazie alle pressioni internazionali potei lasciare l’Iran per essere curata negli Stati Uniti. Avevo già la green card, alcuni medici iraniani mi avevano invitato all’università di Yale, assicurandomi cure mediche
gratuite. Lasciai l’Iran senza pensare di stare via tanto a lungo.

Che cosa è successo a suo marito, Siamak Pourzand?
Negli Stati Uniti venni a sapere che era stato rapito dai servizi segreti. Era rinchiuso come un animale, torturato, picchiato, minacciato. Dopo mesi è apparso in una trasmissione televisiva. Ho stentato a riconoscere il padre delle mie figlie, aveva perso oltre trenta chili. Era impazzito, criticava se stesso, me, i suoi amici. Queste circostanze ci hanno turbato profondamente. Un anno dopo, in seguito alle
pressioni dell’Unione Europea, Siamak è stato rilasciato, per poi essere arrestato nuovamente. In seguito alle richieste internazionali, la magistratura iraniana ha permesso che mio marito andasse in ospedale. E’ stato operato, ora è agli arresti domiciliari ma non è un uomo libero: non sappiamo nemmeno quale sia l’accusa, può essere arrestato in ogni
momento, le autorità lo torturano psicologicamente, lo minacciano per telefono, ha sempre paura.

La vostra famiglia…
Siamo sparpagliati in giro per il mondo: io non posso
tornare in Iran, mi è stato sconsigliato. Mia figlia di 31 anni vive in Canada, l’ambasciatore canadese a Teheran le diede un visto prima del mio arresto, quando minacciavano lei per fare pressione su di me. Il telefono di casa era sotto controllo e i servizi segreti hanno scoperto che aveva un fidanzato: le
chiedevano di avere rapporti sessuali anche con loro, altrimenti mi avrebbero ucciso. L’ho fatta partire appena possibile, ora ha passaporto canadese. Sua sorella minore ha ventun anni, è iscritta all’università nell’Ohio e ora è a Buenos Aires per uno scambio. Io vivo a Boston, ho scritto a persone importanti, sono vecchia e malata, vorrei morire nel mio
paese.

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