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Violenze sessiste tra le pareti domestiche

Ultimo Aggiornamento: 02/05/2006 02:10
25/04/2006 16:13
 
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Violenze sessiste tra le pareti domestiche

di ELISABETH KULAKOWSKA

Violentate, uccise, picchiate, insultate, perché sono donne - e tanto basta. Anne, una figurina ancora sottile e graziosa, quarant'anni passati, racconta così il suo calvario: «Avevo vent'anni quando ho incontrato Jean-Paul, e mi sono innamorata di lui alla follia. Era bello, affascinante, intelligente, divertente. Era già sposato, aveva una bambina piccola. Quasi subito ho saputo che picchiava sua moglie. Ma mi sono detta che doveva essere colpa della donna, che non sapeva renderlo felice. Io invece sapevo amarlo. Poi, un giorno, il primo ceffone. Mi ha preso il panico, ma ancora una volta ho creduto che sarei riuscita a farlo ragionare». Le percosse sono continuate.
Per cinque anni, periodi di quiete e di felicità si alternavano con i periodi in cui lui la picchiava. «Poteva capitare in qualsiasi momento. Di notte, mi prendeva a calci in pancia, spesso mi torceva il braccio dietro la schiena fino a slogarmi la clavicola».
Dopo il matrimonio, la violenza è aumentata ancora. «Fino allora, avevo fatto solo lavoretti da poco. Ma il giorno in cui ho trovato un lavoro vero, da assistente fotografa, lui si è ingelosito. Dopo una crisi più violenta del solito, in cui mi ha picchiata senza riuscire a controllarsi, sono fuggita per mettermi al riparo... e sono tornata da lui una settimana dopo».
Qualche tempo dopo Anne mette al mondo una bambina. Suo marito non aveva mai cessato di picchiarla, anzi aveva continuato anche quando era incinta. «Alla vigilia del parto mi ha obbligato a dormire su un pagliericcio dopo avermi picchiata, e quando sono tornata dopo il parto aveva fatto a pezzi la culla della piccina». Ci vorranno ancora due anni e mezzo perché ad Anne scatti qualcosa dentro. «Il giorno di Pasqua, insieme ad Alice, la mia piccina, avevo preparato delle uova dipinte, che avevamo appeso al soffitto della sua camera.
In mia assenza, Jean-Paul ha devastato tutto. Quando sono tornata, mi ha detto: "Che altro hai fatto?" Quando Alice ha detto, con la sua vocina: "Ma non sei stata tu mamma, è stato papà", non lo ha sopportato e mi ha picchiato a morte. Quel giorno sono andata dai suoi genitori tutta coperta di sangue...» Anne prende coscienza della follia in cui è imprigionata. Lascia definitivamente il marito. «Mi ha fatto partire la presa di coscienza che quello che dicevo non era una bugia», ci assicura. Suo marito insegnava musica in un liceo. «Lo adoravano e lo stimavano tutti».
Veniva da una famiglia borghese e colta, i suoi genitori sapevano di avere un figlio violento, ma non dicevano nulla. Anche Anne viene da una famiglia agiata, colta. Per dieci anni tutte le persone intorno a loro hanno chiuso gli occhi per non vedere.
È una donna martoriata, quella che rompe il silenzio sulla violenza coniugale, il suo corpo reca ancora le tracce delle vecchie ferite che si risvegliano all'improvviso. Ma è anche una donna di 49 anni che osserva con lucidità questo ingranaggio della violenza in cui ha vissuto per ben dieci anni. «Bisogna farla finita con questo cliché della donna picchiata perché è fragile o al contrario perché provocante, o, peggio ancora, "perché ci prova gusto". Non c'è un profilo caratteristico, ma soltanto un ciclo infernale di violenza in cui bisogna rifiutare di entrare», spiega.
Mai, neanche una sola volta, in tutti quegli anni, suo marito ha riconosciuto di averla picchiata. «Non sapevo più se ero impazzita, non sapevo più chi ero. Accettavo tutto perché non ero più me stessa.
Quell'uomo era riuscito a fare di me una cosa, la sua cosa - e pensare che io, prima di conoscerlo, ero piuttosto ribelle, avevo un carattere deciso. Lentamente, tortuosamente, l'amore che provavo per lui passava solo per la violenza. Allora gli trovavo ogni scusa per ogni cosa, perché avevo bisogno di lui». Un'amica di Anne, che l'ascolta fin dall'inizio, aggiunge in un sussurro: «Ci si sente colpevoli di aver scelto un uomo che ci picchia, ci si sente infangate, annientate».


Brano tratto da IL MANIFESTO
26/04/2006 00:54
 
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alcuni aspetti
"....Lentamente, tortuosamente, l'amore che provavo per lui passava solo per la violenza. Allora gli trovavo ogni scusa per ogni cosa, perché avevo bisogno di lui». Un'amica di Anne, che l'ascolta fin dall'inizio, aggiunge in un sussurro: «Ci si sente colpevoli di aver scelto un uomo che ci picchia, ci si sente infangate, annientate»".

Sintetizzati molto efficacemente alcuni dei motivi che rendono difficile ad una donna "sdoganarsi" dal circuito di questo genere di violenza, che è terribile, devastante!

disalmastro


27/04/2006 06:56
 
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"Veniva da una famiglia borghese e colta, i suoi genitori sapevano di avere un figlio violento, ma non dicevano nulla. Anche Anne viene da una famiglia agiata, colta. Per dieci anni tutte le persone intorno a loro hanno chiuso gli occhi per non vedere."

Uccide di più l'accettazione silenziosa di chi ti sta intorno, della violenza stessa.

Dany

27/04/2006 21:55
 
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Re:

Scritto da: Aries2006 27/04/2006 6.56
"Veniva da una famiglia borghese e colta, i suoi genitori sapevano di avere un figlio violento, ma non dicevano nulla. Anche Anne viene da una famiglia agiata, colta. Per dieci anni tutte le persone intorno a loro hanno chiuso gli occhi per non vedere."

Uccide di più l'accettazione silenziosa di chi ti sta intorno, della violenza stessa.

Dany




SI...decisamente SI... reputo davvero vergognoso l'atteggiamento di chi anche sapendo rimane in silenzio... quale miglior modo per difendere il violento? Non proferir parola... Da quanto sottolineato si evince che la violenza contro le donne non ha precise collocazioni sociali ma investe tutti i ranghi della società.

Da quello che leggo in giro, testimonianze, conferenze, statistiche, il problema è di una tragicità senza confini che va combattuto con tutte le armi disponibili...Beh questo è un grido soprattutto per i governi.

Saluto
Gae

[Modificato da Geneshys 27/04/2006 21.56]

28/04/2006 02:44
 
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Questa violenza è la meno riconosciuta dalla donna e dal contesto sociale. La decisione della donna di restare in silenzio e di non denunciare gli abusi subiti può dipendere da più concause tra le quali possiamo sottolineare il ruolo che la società ha sempre assegnato alla donna (moglie e madre), delegandole la responsabilità dell’armonia familiare; il peso di questa eccessiva responsabilizzazione è unito ai rinforzi provenienti dagli amici, parenti e rappresentanti delle agenzie sociali...."che vuoi che sia"...."te lo sarai meritato"..."fai la brava mogli e la brava madre"...."se non è lei che si decide a rompere questa situazione, probabilmente le sta bene "..."perchè dovrei prendermi io la responsabilità di parlare o denunciare se non lo fa lei per prima?"...ecc.

L’obiettivo di chi mette in atto questa spirale è garantire il proprio status quo, relegando le donne in uno stato di subalternità, per conservare il potere e l’esercizio del controllo su di esse.

Purtroppo le donne si vergognano della situazione che vivono;
e molto difficilmente hanno il coraggio di rompere una relazione ambivalente (caratterizzata sia dalla violenza che dall’amore verso il partner violento).

Il cammino è lento e difficilissimo,ma c'è speranza sopratutto se le nuove generazioni vengono davvero aiutate a comprendere, a crescere nel valore del rispetto...e non dico poco
02/05/2006 02:10
 
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Quello che dici è assolutamente vero, far prendere coscienza ai giovani dell'importanza per la donna di lottare per cambiare la propria situazione all'interno di una società che l'ha sempre relegata in una situazione di subalternità. Questo è esattamente l'obiettivo che ci siamo prefissati di raggiungere attraverso i seminari informativi che svolgiamo nelle scuole. I giovani sono la forza di domani,è attraverso la presa di coscienza di tale problematica che si può sperare in qualche cambiamento relativo all'atteggiamento sociale nei riguardi del problema sulla violenza alla donna. Devo dire che ho notato nelle giovani ragazze con le quali attualmente svolgiamo i seminari la voglia di fare sentire la loro voce, la non paura di affermare il proprio punto di vista e, soprattutto, voler difendere il loro diritto di essere "donne".
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