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LE VIOLENZE SESSUALI IMPUNITE

Ultimo Aggiornamento: 25/03/2006 13:56
25/03/2006 13:56
 
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Le violenze sessuali impunite

Anche in materia di violenze sessuali le donne di molti paesi del mondo non trovano certo un aiuto da parte della legge, del sistema giudiziario e delle autorità statali. In Pakistan ad esempio esistono specifiche barriere legali alla denuncia di violenza sessuale. La legge in materia di stupro prevede infatti che se una donna non riesce a provare la mancanza di consenso all’atto sessuale, può lei stessa venire accusata di zina (fornicazione). La zina è un reato punibile con la condanna a morte per lapidazione o flagellazione pubblica. Varie associazioni femminili hanno tentato di promuovere una modifica della legislazione, per far sì che le vittime di stupro possano sporgere denuncia senza rischi. In queste circostanza, Amnesty International ritiene che le donne siano a tutti gli effetti vittime di tortura e considera dunque lo stato complice dei responsabili del reato.

Anche in Nigeria le donne stuprate evitano di denunciare la violenza subita per paura di essere punite. Bariya Ibrahim Magazu, di 17 anni, è stata condannata a 180 bastonate nello stato di Zamfara, nella Nigeria del Nord nel Settembre 2000. Non era assistita da alcun avvocato e non è stata capace di produrre le prove che tre uomini avessero usato violenza su di lei, causandole una gravidanza. È stata condannata a 100 colpi per avere avuto una relazione sessuale al di fuori del matrimonio e ad altri 80 per le accuse verso i tre uomini, che sono state giudicate false. La sentenza è stata rimandata a 40 giorni dopo il parto.

Nonostante gli standard internazionali prevedano che si indaghi in maniera immediata, pronta e imparziale su reclami e denunce di violenze su donne, la realtà è tristemente diversa. In molte parti del mondo, la polizia è di solito negligente nell’indagine su abusi denunciati da donne, trattando la violenza non come una faccenda legale o un motivo di preoccupazione per i diritti umani, ma piuttosto come un affare privato nei confronti del quale essi non hanno responsabilità alcuna. Il pregiudizio sessuale nelle forze di polizia è raramente affrontato dai governi, malgrado l’obbligo internazionale di sradicarlo. Spesso gli agenti consigliano mediazione e riconciliazione, senza tenere conto che le donne che si sono decise a rivolgersi alla polizia hanno di solito accettato tutti i compromessi che era possibile sopportare. Frequentemente le vittime sono rimandate a casa e la denuncia non viene compilata.

Le vittime di violenza sessuale sono in genere riluttanti a rivolgersi alle forze di polizia, e questo accade in tutto il mondo. Secondo il British Crime Survey, la maggior parte delle donne denuncia la violenza domestica solo dopo aggressioni ripetute e spesso nasconde le proprie ferite per paura di ulteriore vendetta dell’aguzzino, per vergogna o talvolta perché si ritengono in qualche modo in colpa esse stesse. Una ricerca del governo canadese ha messo in evidenza che il 75% delle donne vittime di abusi da parte del proprio marito non ha denunciato l’incidente alla polizia.

La storia di Bhanwari Devi riassume tutte le difficoltà che una donna, per quanto coraggiosa, può incontrare per ottenere giustizia dopo una violenza. Bhanwari Devi, un'attivista contro i matrimoni combinati tra bambini in India, è stata violentata il 22 settembre 1992 nel villaggio di Bhateri, in Rajastan, da cinque uomini di casta sociale più elevata. La polizia si è inizialmente rifiutata di accogliere la denuncia di Bhanwari Devi e le è stata anche negata una visita medico-legale. Durante l’inchiesta, avviata dal governo a seguito di una lunga serie di proteste, è stata sottoposta a interrogatori estenuanti. Le sue denunce furono accertate e i cinque uomini rinviati a giudizio. Il processo iniziò nel novembre 1994. Nel verdetto del novembre 1995, la corte asserì che il ritardo nella denuncia e nella perizia medica indicavano che la donna aveva probabilmente inventato la storia. La corte ha osservato che la violenza era da ritenersi assai improbabile in quanto uomini di casta elevata non avrebbero mai violentato una donna di casta inferiore. Gli uomini furono assolti dall’accusa, ma condannati di reati minori. Durante tutto il corso del processo, i membri della comunità locale e i politici hanno esercitato notevoli pressioni sulla donna perché ritirasse le accuse.

I giudici sono ovviamente parte della società in cui vivono, e ne riflettono i valori culturali, le norme morali e anche i pregiudizi. Superare i pregiudizi però dovrebbe essere un prerequisito per un incarico di questo tipo, ma la discriminazione contro le donne e la mancata comprensione che la violenza sulle donne è un tema connesso ai diritti umani ha frequentemente portato a vizi nel modo in cui i processi sono condotti, e nelle decisioni e sentenze.

Nel Novembre 1999, una domestica originaria dello Sri Lanka è stata condannata a due mesi di prigione a Dubai, per avere stracciato una copia del Corano in segno di protesta contro sei mesi di abusi sessuali da parte del datore di lavoro e dei suoi due figli. La donna ha riferito gli abusi alla corte, affermando di non avere trovato una via di scampo. I membri della corte per tutta risposta hanno consigliato chi aveva in casa lavoratrici non-musulmane di tenere i testi sacri fuori dalla loro portata. Non risulta aperta nessuna inchiesta per le denunce di stupro, per non parlare di istruzione di processo.


Valentina Piattelli, (Amnesty International Sezione Italiana.)

Firenze, 1972. Laureata in Storia Contemporanea, responsabile dell'Incarico pubblicazioni della Sezione Italiana di Amnesty International, ha pubblicato vari libri su temi quali l'antisemitismo nel periodo fascista, la guerra nella ex Jugoslavia e in particolare, per Amnesty International, ha curato il volume Donne in prima linea, contro le violazioni dei diritti umani (ECP, Firenze 1995).
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