Le testimonianze a porte chiuse dei bambini di Rignano:
quelle sollecitazioni durante gli interrogatori
"Streghe, statue e castelli neri"
Ecco l'ultima carta dell'accusa
di CARLO BONINI
ROMA - Liquidati dalla Cassazione, gli Orchi di Rignano Flaminio non ci lasceranno. Perché, ora, la storia nera della "Olga Rovere", con i bambini non ha più nulla a che vedere. Torna ad essere quel che è stata dall'inizio: affare di soli adulti, incapaci sin qui di muovere un solo passo avanti verso la verità, quale che sia. E per questo degli Orchi irrimediabilmente prigionieri.
Due documenti di 154 pagine, depositati agli atti dell'istruttoria della Procura di Tivoli, raccontano il capovolgimento. Anticipano il canovaccio dei prossimi mesi. Sono le trascrizioni delle testimonianze che il 28 e il 30 luglio due bimbe che si vogliono abusate (prime di un gruppo di dieci) affidano in un "esame protetto" al giudice dell'indagine preliminare Elvira Tamburelli, al pubblico ministero Marco Mansi, alla neuropsichiatra consulente di ufficio Angela Giganti, agli avvocati dei sette indagati, all'accusa privata delle parti civili. I ricordi delle bambine si specchiano nelle sollecitazioni degli adulti. Ora le assecondano. Ora le deludono. Ne diventano il calco emotivo. Documentano un metodo di indagine e i criteri che la governano.
28 luglio, dunque. A. (chiamiamo così la bimba) è in una stanza attrezzata del Tribunale di Tivoli. Una piccola sedia. Una lavagna. Dei fogli bianchi. Matite colorate. Peluche. Bambole. Una telecamera e dei microfoni. Accanto a lei, la sola neuropsichiatra Angela Giganti, con una cuffia che le consente di ascoltare e "mediare" le domande che il giudice e le parti, isolati in un'altra aula, rivolgeranno alla bimba.
A. ha imparato a conoscere bene la neuropsichiatra. Si sono incontrate più volte. Le ha già raccontato "tutto". Ora dovrà soltanto ripeterlo per un'ultima volta. La più importante. A. è una bimba intelligente. E ormai ha più di cinque anni. Si mette a disegnare. "Sto a fà il rossetto". "Ah, stai facendo il rossetto. E tu te lo sei messo il lucido sulle labbra? Fai vedere? È vero che ti sei messa il lucido sulle labbra?". A. risponde svogliata a domande di routine sulla sua vita familiare. Afferra il microfono e le cuffie audio della neuropsichiatra per salutare il giudice. Riprende a disegnare. Prima era un rossetto. Ora degli orecchini. La neuropsichiatra la sollecita.
"Come si chiamava la maestra?".
"Deborah".
"Deborah?".
Il nome non è congruo con il canovaccio dell'istruttoria.
"E avevi solo la maestra Deborah?".
"Due Deboreh".
"Due Deboreh?".
"Quattro Deboreh".
"Quattro maestre e tutte Deborah si chiamavano?".
"Sì, come la pecora che fa Beeh".
A. non si lascia afferrare. "Allora, quali cose si fanno a scuola? Me ne racconti qualcuna?" "Non mi va". "Ma ci vai volentieri?". "Sì". La psichiatra aumenta la pressione: "Ti ricordi che io sono la dottoressa delle cose belle e delle cose brutte? E te l'ha spiegato il giudice che è il giudice dei bambini. Spiegale quello che ti piace e non ti piace. Io me lo ricordo che ti piace il gioco del cagnolino e della tigre...".
A. comincia a ritagliare dei coriandoli. La neuropsichiatra non la molla. "Hai mai fatto giochi che non ti piacciono?". "No". Insiste, mostrandosi delusa: "Io ho l'impressione che tu al giudice non gli vuoi far sapere proprio niente di te...". Funziona. A. ora si giustifica: "È che non mi va perché sò stanca". "Lo capisco (...) Ci sono delle cose che vuoi far sapere a me?". "Sì". A. racconta di un cavalluccio a dondolo nella vetrina di un negozio. Gioca con la collana della neuropsichiatra. Poi, chiede della madre. "Devo dire una cosa a mamma". "Facciamo così. Il giudice voleva che tu le raccontassi un po' di cose della tua vita. Quando gliele hai raccontate te ne vai a casa...".
Ci siamo.
"Allora, raccontiamo una cosa brutta?".
"Sai che c'era una strega che si chiamava Patrizia?". Il nome "finalmente" collima (Patrizia Del Meglio è una delle maestre indagate). Ora A. deve soltanto essere accompagnata. Così.
"E dove stava questa strega?".
"In un castello. E c'erano tutti i bambini piccoli che non sapevano cosa fare. E c'ero pure io che le davo le tottò e non moriva perché era troppo potente e magica. Era una strega maligna che faceva male ai bambini".
"Gli faceva le punture?".
"Al culo".
"Al culo dove? Sulla chiappetta o dentro il culetto?".
"Sulla chiappetta".
"Come era questo castello?".
"Nero".
"E come ci andavate?".
"Nella macchina di Ang... Eh, cioè... no. La stavo a sbaglià. Stavo a dì Angela (...) Era di Marisa, un'altra strega uguale a Patrizia".
Anche il secondo nome (Marisa Pucci, maestra) è stato pronunciato. A., sollecitata, aggiunge dei dettagli.
"Le streghe le ho viste al castello. Marisa l'hanno trovata uccisa... I poliziotti".
Cos'è il castello? La casa di Rignano dove si ritiene che i bambini venissero abusati? O nella nuova immagine si impasta anche il ricordo dei giorni di galera delle maestre (l'hanno trovata uccisa i poliziotti...)?
La neuropsichiatra tira dritto.
"Quando ci sei andata al castello?".
"Ieri".
La risposta pone un problema.
"Come ieri? Ieri mattina, oppure tanto tempo fa? O un po' di tempo fa?". "Quando era notte".
Se "ieri" è una risposta "impossibile", "ieri notte" lo è ancor di più, perché i bambini si vogliono abusati in pieno giorno, sottratti alle loro classi durante la giornata scolastica. La neuropsichiatra lascia cadere.
"Che faceva questa strega nel castello?"
"I giochi pelushati alla patatina e al culetto. Facevano malissimo, sai?".
"E come erano? Me lo dici?".
A. mima la masturbazione.
"Eri spogliata?".
"Si".
"Tutta o un po'?".
"Spogliata tutta".
"E mentre tu facevi questo gioco, la strega Patrizia che faceva?".
"Catturava i piccoletti".
L'avvocato Carlo Taormina (parte civile): "Vorrei che si chiedesse se la bambina riesce a ricordare la strada che faceva per andare al castello, quanto tempo impiegava e se faceva anche il gioco della "patatina che fa il solletico". Se c'erano altri uomini al castello e chi erano Patrizia e Marisa".
A. non ricorda né la strada per il castello, né i suoi tempi. Dice: "Non facevo nessun altro gioco". Aggiunge: "Non c'erano altre persone grandi". Quindi torna sulla visita "fantastica" della notte appena trascorsa.
"Chi ti ha portato ieri al castello?".
"Marisa".
"E chi è Marisa?"
"La strega"
"E l'hai vista anche da qualche altra parte oltre che al castello?".
"Solo al castello".
Chi è dunque Marisa? È la maestra o no? E chi è Patrizia? La neuropsichiatra: "Pensaci bene. La strega Patrizia l'hai vista da qualche altra parte?".
"No".
"A scuola non l'hai mai vista?"
"No".
A. scalpita. "Dove l'hai comprati stì orecchini? E la collana? E il bracciale?", chiede alla psichiatra. Ma da lei vogliono ancora sapere di una piscinetta per bambini.
"Conosci un certo Maurizio?".
"Sì. Era cattivissimo. Andava dentro l'acqua del mare e stava dentro un barattoletto e rubava i gioielli al castello".
"Maurizio andava nella vaschetta?".
"No. Non è vero".
"Dov'è questa vaschetta?".
"Dentro al castello".
Il giudice interrompe. "Credo che la bimba sia "arrivata"".
Appaiono "arrivati" anche gli adulti. E lo dimostrano il 30 luglio. Tocca alla seconda bimba, chiamiamola B. Il canovaccio è identico. E identico è il contesto. Non il contegno. In aula si affaccia uno dei genitori dei bambini che si vogliono abusati. Indossa una t-shirt. Si legge: "Pedofilia". Il giudice lo sbatte fuori. Gli avvocati difensori Naso e Coppi chiedono che la psichiatra tenga le mani a posto durante l'esame ("Gradiremmo che questa volta la bambina non venisse accarezzata. Non è una seduta di psicoterapia"). Ne nasce un finimondo. E quando tocca a B., cinque anni, una maglietta con una papera e la scritta "Diva", può andare solo peggio. Anche perché quel che la bimba ha da dire rimescola le carte dell'istruttoria.
"Cosa è successo a scuola?"
"Delle cose bruttissime che io ed A. abbiamo raccontato alla mamma di A.".
"Dove?"
"In una stanza sotto la scuola, dove c'erano "le scale a mobile"".
"E dove portavano le scale mobili?"
"In una stanza in fondo, grande. Con tutte le statue".
"E come ci andavate?".
"Da soli".
"Che giochi facevate?".
"Giochi normali".
"E voi che facevate alle statue?".
"Gli davamo le botte sulla patatina".
"Ma come facevate ad andare nella stanza delle statue?".
"Ci andavamo da soli. Le statue dormivano lì".
"E dopo che succedeva?".
"Nulla. Rientravamo in classe e c'era la maestra Marisa".
"La maestra Marisa che vi insegnava?"
"Le canzoncine e i disegni".
B. chiede della mamma. E, come per A., la neuropsichiatra pone una condizione. "Tra un pochino vai da mamma, prima però il giudice voleva capire quali sono queste brutte cose". B. si mette a giocare con le bambole, parlando da sola. Gli addetti in toga non sembrano prestare alcuna attenzione. Anche se, forse, dovrebbero, dal momento che ci si interroga su quale forma di sollecitazione sessuale abbia lavorato sulla psiche dei bambini. La storia che B. racconta è quella di due sorelle (le bambole) che si contendono un marito. Il linguaggio è maturo: "Le due si rilitigavano. Lei litiga con il marito che lasciava quella nera e si prendeva la bionda. "Io non ti voglio più a te..." "Io ora vado con lei. Punto e basta". "Ti va a stare con me?" Io volevo stare un po' con lei. Sono amica. Ho fatto finta da essere il fidanzato suo. Sono sempre tuo. E ora andiamo a vestirci, amore".
Nulla scalza le statue. Di cui, però, B. improvvisamente dice di aver soltanto saputo.
"Allora, queste cose brutte sotto alla scuola, le hai viste o te le hanno raccontate?".
"Io non ho visto niente. L'ho saputo".
"E cosa hai saputo?".
"Il vento".
B. viene congedata.
19 Settembre 2007
Fonte: La Repubblica