LA VIOLENZA TOLLERATA

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fiordineve
00mercoledì 15 marzo 2006 11:38
L'uomo violento é stato scelto, rappresenta una parte di un progetto di vita (coppia, amico, ecc.).

- Questo progetto può essere rafforzato da aspettative della donna: dimostrare agli altri di saper fare, saper stare in rapporto, saper meritare riconoscimenti e compensazioni di valore, ecc.

- Il progetto sulla cui base si sceglie un uomo trae origine dalla fase adolescenziale ed é supportato dall'addestramento e dall'educazione al ruolo. Esso é in rapporto con le aspettative dei genitori, e con quanto ha vissuto la donna-adolescente in termini di deprivazione della propria sfera di libertà personale nel rapporto con la madre ( la madre si presenta sulla scena della vita dell'adolescente figlia come bisognosa di supporto materiale e psicologico, spesso é essa stessa vittima di un partner violento e disconoscitivo).

La scelta del partner é caricata di un significato che affonda la sua radice nella strutturazione della identità personale. L'altro, il partner, dopo che la donna ha avuto una vicenda adolescenziale di tipo supportivo nei confronti della famiglia (ruolizzazione precoce) assume un doppio ruolo: da un lato compensativo risarcitorio, dall'altro dimostrativo delle proprie capacità di scelta ( del partner giusto) e della capacità di stare in relazione con l'uomo (9).

Il significato compensativo - risarcitorio della relazione con il partner é rintracciabile da un lato nella percezione di “non aver avuto attenzioni e riconoscimenti” dai genitori e nella famiglia; dall'altro lato nella necessità di formulare un progetto alternativo a quello familiare in cui sia prevista, diversamente da quanto successo nella relazione tra i genitori, un rapporto con il proprio partner soddisfacente e riconoscitivo.

I vissuti soprattutto delle giovani donne che “soffrono” di incapacità alla separazione (dipendenza) da partner disconoscitivi e/o violenti, fanno riferimento ad un bisogno di conferma di amore e di valore da parte del partner, che crea una dinamica di richieste continue che creano nell'altro atteggiamenti opposti a quelli desiderati.

Emerge così un desiderio di approvazione e riconoscimento che é quasi sempre “caricato” del bisogno della madre: si tratta spesso di un impegno a realizzare un progetto per “ conto di altri”.



In definitiva dietro la tolleranza alla violenza, dietro la permanenza nella relazione con l'uomo disconoscitivo e/o violento troviamo due elementi fondamentali della storia della donna:

- un carico progettuale (un progetto caricato di aspettative altrui) derivato dalla vicenda adolescenziale così come l'abbiamo definita;

- una educazione al ruolo che fornisce alla donna strumenti impropri nella relazione con l'uomo: definisce regola naturale il rapporto dispari improntato alla cura dell'altro, e considera la reciprocità della cura qualcosa che la donna deve guadagnarsi, contrattare e chiedere all'altro.

Fin qui le vicende educative ed adolescenziali che determinano il terreno ed il contesto favorevole alla tolleranza della violenza.

Sullo sfondo dell'addestramento al ruolo si innestano i compiti attuali e concreti che la donna si assume all'interno della famiglia: ogni azione della vita quotidiana della donna può dare luogo ad una deroga al ruolo, o un venir meno al patto relazionale sull'assunzione di un atteggiamento di cura, disponibilità, accoglienza, vicinanza fondato sui modelli di ruolo del proprio genere.

Sulla pluralità dei compiti, sul loro avere come obiettivo il gradimento dell'altro, si apre lo spazio della quotidiana e comune violenza familiare. La violenza maschile viene percepita dalla donna come comportamento comprensibile e giustificabile, in quanto determinato e motivato da un comportamento improprio, imprudente, illegittimo, ingiusto della donna: una motivazione alla violenza dell'uomo é sempre rintracciabile nel mare magnum del “dover essere” femminile e della specifica competenza alla cura degli altri.

Il riconoscere, il rintracciare la motivazione, fornisce un alibi potente all'uomo violento (presunta legittimità della violenza) che coinvolge direttamente la donna. La donna infatti nel momento in cui rintraccia la motivazione tende a percepirsi interna al meccanismo di produzione della violenza, e quindi a sentirsi responsabile e colpevole.

Questo dato della motivazione che, una volta individuata, torna a danno della vittima trasformandola in presunta colpevole, é un meccanismo estraneo al contesto civile e giuridico della nostra società.

Si pensi solo al fatto che nel mondo giuridico vale il principio opposto: se non viene riconosciuta e prodotta una motivazione, difficilmente un delitto sarà punito, ovvero sarà identificato il colpevole.

Nel caso della violenza contro la donna vige il principio che: maggiori motivazioni sono fornite, pi la posizione del colpevole si alleggerisce fino addirittura a capovolgersi completamente ed a coinvolgere la vittima che, solo in questo specifico caso (della violenza sessuale), ha un alto tasso di probabilità di divenire essa stessa colpevole.

Se questo é il meccanismo perverso presente in maniera anomala nella cultura e nella ideologia sociale, é chiaramente presente anche nel vissuto soggettivo della singola donna: questo meccanismo porta la donna soggettivamente ad accettare (a non disconoscere attivamente) e a rimanere nella violenza.

Ma il permanere nella situazione di violenza non é senza rischi: esso ha conseguenze psicologiche tutte molto gravi.

La violenza fiacca e riduce progressivamente le capacità di reazione, restringe in generale gli spazi vitali, le relazioni con gli altri, l'attenzione e l'interesse verso di sé; riduce il campo dei diritti personali, ed amplia a dismisura il campo dei diritti dell'altro.



fiordineve
00mercoledì 15 marzo 2006 11:40


Partecipazione della donna: la provocazione
Ogni azione della vita quotidiana della donna può dare luogo ad una deroga al ruolo, o un venir meno al patto relazionale sull'assunzione di un atteggiamento di cura, disponibilità, accoglienza, vicinanza fondato sui modelli di ruolo del proprio genere.





L'attribuzione di responsabilità alla donna
Il comportamento violento è presentato o riconosciuto come ammissibile, non sanzionabile, in quanto collegato ad un comportamento improprio, imprudente, illegittimo, ingiusto della donna, sempre rintracciabile nel mare magnum del "dover essere" femminile e della specifica competenza alla cura degli altri.





I vissuti di colpa e la mancanza di risposta alla violenza


Il riconoscimento di una motivazione (presunta legittimità della violenza) coinvolge la donna che tende a percepirsi interna al meccanismo di produzione della violenza, generando attribuzioni di responsabilità e sensi di colpa.

Questo meccanismo porta la donna soggettivamente ad accettare (non disconoscere attivamente) e a rimanere nella violenza.





La violenza tollerata genera

riduzione di capacità, risorse, stima e quindi di autonomia
La violenza fiacca la donna in due direzioni:

- la porta ad ampliare i diritti dell’altro e a ridurre i propri attraverso l’aumento del carico di cure per gli altri e la riduzione di cure per sé (aumento del lavoro e delle responsabilità, riduzione degli spazi personali);

- le riduce la stima di sé, la fiducia nelle proprie capacità, il senso di sicurezza personale, sviluppa la dipendenza ed il bisogno di affidamento ad altri.


La seconda tappa inizia con l’isolamento e la perdita delle risorse personali, messe al servizio degli altri; termina con la percezione di essere diversa, di essere diventata cioè incapace, priva di risorse e di qualità, bisognosa di appoggio e con l’attribuzione del cambiamento ad un evento patologico esterno: “la malattia, la depressione”, ecc.”.







fiordineve
00mercoledì 15 marzo 2006 11:42





Seconda tappa: la violenza cronicizzata





Dalla violenza non riconosciuta e tollerata all'isolamento e alla percezione di incapacità




La seconda tappa del percorso è la cronicizzazione della violenza: dalla non risposta di contrasto, dalla tolleranza, determinata dal meccanismo precedentemente messo in luce, ci si avvia in una seconda fase.

Il permanere nella violenza richiede una concentrazione di energie sulla relazione violenta raddoppiando quelli che sono i "normali orientamenti alla cura" del ruolo femminile (l'attenzione e vigilanza su tutto, il controllo su di sè e gli altri, ecc).

Se le attività di cura creano isolamento sociale e dipendenza, la violenza diviene potente mezzo di amplificazione di queste caratteristiche del ruolo.

Essa crea sia tempi insufficienti e caduta delle motivazioni per le relazioni esterne sia deterrenti come i vissuti di vergogna e colpa nei confronti della situazione subita (non so farmi rispettare, non sono capace di meritare rispetto) che tendono ad allontanare le donne dal contesto sociale ed a ridurre lo spazio della espressività soggettiva.





La violenza ha come correlato l'isolamento della vittima da un contesto di solidarietà




La donna che per anni mantiene un rapporto con un uomo violento è una donna che non ha o che è stata privata di supporti e reti di solidarietà, relazioni positive con gli altri;

paradossalmente, riducendo le relazioni sociali e rimanendo come unica relazione quella con l’uomo si aumenta il rischio di esposizione alla violenza attraverso il meccanismo perverso della dipendenza: nello stesso modo come si crea la dipendenza secondaria dal torturatore in un contesto di totale isolamento sociale (sindrome di Stoccolma).






Il vissuto depressivo
Tolleranza, svalorizzazione e disistima, isolamento, dipendenza socio-emotiva dal violento sono i potenti fattori di una percezione di impraticabilità di ogni strada di uscita dalla condizione di soggezione alla violenza.



Tutte le volte che si presenta la chiusura della soluzione al livello della vita quotidiana e delle relazioni, si apre la strada della malattia come segnale di un disagio che non si può dire e come richiesta di aiuto e solidarietà sotto la veste di richiesta di cure mediche.





fiordineve
00mercoledì 15 marzo 2006 11:44
C. Terza tappa: la domanda di aiuto al tecnico



Quando la situazione di violenza é seppellita sotto il malessere del corpo e della mente, la donna chiede aiuto al tecnico e la sua domanda nasconde spesso una realtà di soggezione e violenza. La richiesta di aiuto é la seguente: “non sono in grado di... , non sono capace, non mi riconosco più, sono una nullità, sono confusa, non riesco a fare pi niente, non riesco a fare più le cose di prima....” la donna dice e cerca spiegazioni scientifiche nella malattia, spiegazioni che la portano lontana da quel contesto angoscioso da cui proviene.



A questa domanda di aiuto la risposta del tecnico può essere duplice:

a. guardare ai sintomi senza andare oltre nella ricostruzione del percorso di ingresso nella malattia, e nella individuazione di specifiche condizioni di vita;

b. al contrario ascoltare i sintomi come segnali di un percorso di vita dentro cui é molto probabile trovare i nessi tra disagio, ruolo femminile, dipendenza e violenza.



Nel primo caso la situazione apparirà come una malattia da curare con gli strumenti classici della medicina e della psichiatria .

Nel secondo caso il tecnico dovrà addentrarsi nella vita quotidiana della donna, approfondire le tappe del percorso di formazione del malessere e dei suoi collegamenti con la vita quotidiana.

Per poter fare ciò, l'operatore sociale e sanitario deve essere preparato a:


1. riconoscere la situazione di violenza dietro il sintomo, dando attenzione alla vita quotidiana e al tipo di relazione con il partner.

2. Essere solidale con la donna dandole senza riserve il ruolo di colei che ha patito una ingiustizia; alleggerire il senso di vergogna e di colpa che la donna si porta per aver subito violenza, lavorando sulla decolpevolizzazione e sul riconoscimento degli atti di violenza subiti.

3. Cogliere i legami e la dipendenza della donna dall'uomo violento tracciando le caratteristiche della sua storia di donna connotata da tappe di progressivo isolamento, rinuncia alla libera espressione di sé, adesione al modo di essere e pensare del partner o dell'”altro”.

4. Riformulare un progetto di vita che contenga la realizzazione personale al di fuori della relazione con l'uomo violento.

Per uscire dalla violenza é necessario: riconoscere la violenza anche all'interno di rapporti familiari ed affettivi, non tollerare, e disconnettere i percorsi che portano alla dipendenza.

La necessità che gli operatori sanitari siano formati per leggere e decodificare dietro il disagio psichico e la depressione situazioni di violenza é stata sottolineata in un Meeting dell'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) nel dicembre 1997 a Copenaghen, dove sono state prodotte anche linee-guida di indirizzo alla pratica clinica e sanitaria (10).

http://www.salutementaledonna.it/ricerca_violenza.htm
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