Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne: Save the Children, sono 120.000 le bambine soldato nel mondo
La comunità internazionale sta continuando a dimenticare oltre 120.000 bambine impiegate come soldati nel mondo. Save the Children, la più grande organizzazione internazionale indipendente per la tutela e la promozione dei diritti dei minori, alla vigilia della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, rinnova un allarme lanciato circa un anno fa attraverso il rapporto Forgotten Causalities of Wars: Girls in armed conflicts ( Le vittime dimenticate dalla guerra: le bambine nei conflitti armati).
Save the Children registra il dato allarmante di circa mezzo milione di minori oggi impiegati negli eserciti regolari e nei gruppi armati di opposizione in 85 paesi. Oltre 300.000 prendono parte ai combattimenti in 35 paesi e di questi circa il 40% è rappresentato da bambine.
Il fenomeno raggiunge dei numeri impressionanti in alcuni paesi come l’Uganda, dove si stima ci siano circa 6.500 bambine soldato, rapite dai ribelli del Lord Resistance Army (33% del numero totale dei minori combattenti del Paese); la Repubblica Democratica del Congo, dove sarebbero ben 12.000 le bambine ancora associate con le forze armate; lo Sri Lanka, dove 21.500 ragazze sarebbero coinvolte nel conflitto armato in corso (43% del totale dei bambini soldato del Paese).
Nella maggior parte dei casi, il reclutamento avviene con il rapimento, anche se sono molte le giovani che finiscono per unirsi agli eserciti per reazione a violenze subite o spinte dalla ricerca di protezione, di cibo e del necessario per sopravvivere.
I ruoli delle bambine, che a volte hanno solo 8 anni, variano anche in base ai paesi: prendono parte ai combattimenti, ma vengono anche utilizzate come portatrici, raccolgono informazioni, fanno da corrieri, da cuoche o domestiche. Quasi tutte sono però costrette a diventare “mogli” dei combattenti, a subire violenze psicologiche e sessuali, a soddisfare ogni desiderio dei guerriglieri, venendo così violate doppiamente sia come donne che come bambine. Molte di esse, durante il corso della guerra rimango incinte, ma devono continuare a combattere, a svolgere il loro compito nelle milizie, ad essere adoperate come oggetto sessuale, sia durante la gravidanza che dopo.
La maternità costituisce un impedimento al loro inserimento nelle loro famiglie e comunità d’origine dove a volte riescono a tornare, poiché spesso queste si rifiutano di accoglierle e aiutarle a causa di quelli che vengono considerati figli della colpa. Le ragazze, che devono già far fronte ai profondi traumi fisici e psicologici, sono quindi costrette ad affrontare da sole numerosi problemi che vanno dal crescere e mantenere dei figli da sole, alle malattie trasmesse per via sessuale, all’AIDS.
Le parti in lotta nei vai Paesi di solito negano l'utilizzo delle bambine soldato e ciò comporta la difficoltà a reperire informazioni sui numeri e sul dislocamento delle minori interessate. Quando viene raggiunta la tregua, molte delle ragazze vengono considerate come “mogli” dei combattenti, non sono quindi riconosciute come parte lesa dalla guerra e bisognosa di assistenza e, conseguentemente, non sono coinvolte nei successivi programmi di disarmo, militarizzazione e reintegrazione.
Le bambine inserite nei propri programmi di recupero nella Repubblica Democratica del Congo, ad esempio, sono state solo il 2% del totale dei bambini combattenti, mentre in Sierra Leone, su una stima di 12.500 bambine che avrebbero fatto parte dei diversi gruppi armati, solo 506 (il 4,2%) hanno usufruito di un programma di reinserimento sociale.
L’Organizzazione sottolinea come la comunità internazionale non sia ancora riuscita ad identificare delle politiche efficaci di sostegno a queste bambine, adottando programmi di reintegrazione sotto-finanziati e inappropriati per i loro bisogni. Spesso, l’unica assistenza che viene data loro consiste nel fornire qualche indumento e un po’ di cibo e rimandarle nelle comunità d’origine.
Save the Children, al contrario, raccomanda una serie di interventi a lungo termine, volti a supportare le bambine reinserirsi nelle comunità d’origine, e in particolare:
• compiere un’azione di mediazione con le famiglie e le comunità, per aiutare queste ultime a comprendere la coercizione a cui le bambine sono state sottoposte e quindi a non condannarle;
• aiutarle a trovare mezzi di sostentamento duraturi;
• dare loro accesso all’educazione e alla formazione professionale;
• supportarle psicologicamente per superari i traumi subiti;
• fornire loro assistenza medica, soprattutto correlata ad eventuali malattie a trasmissione sessuale come l’AIDS.
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