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LO STUPRO - TRA ETIMOLOGIA, STORIA E MITOLOGIA

Ultimo Aggiornamento: 11/03/2006 02:45
11/03/2006 02:45
 
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Simonetta Costanzo
Psicoanalista Criminologo Psicodiagnosta
Membro Associazione Nazionale ed Internazionale di Psicologia Analitica
VPresidente Associazione Italiana Rorschach
Membro Società Internazionale Rorschach
Docente di Psicologia Sociale e dei Gruppi
presso l’Università della Calabria (CS)
00141 Roma - Via del Casale Giuliani, 81
Tel. e Fax: 06/ 8861600 - 0984.435149
e-mail: simocostanzo@hotmail.com
Alessandra De Caprio
Psicologo dell’Età Evolutiva
Tirocinante presso l’Insegnamento di Psicopatologia Forense
Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
00141 Roma – Via del Casale Giuliani, 81
Tel. 347.4429093
e-mail: lallafly@tin.it


LO STUPRO


CARNEFICI E VITTIME

“Sei il torturatore. Sei l’ultimo degli uomini.
Il più odioso. Posseggo molto oro.
Ho moglie e due figli. Ho amici.
Un giorno non avrò più niente.
Diverrò vecchio. Morirò. Imputridirò.
Sarò quello che sei tu.
La mia vita è una discesa nel nulla.
T’invidio. Sei l’uomo più fortunato”

Friedrich Durrenmatt


ETIMOLOGIA

Il termine stupro, per la lingua italiana, significa in primo luogo violenza carnale, ovvero accoppiamento sessuale imposto con la violenza ad una donna vergine o a qualunque altra persona non consenziente; ma anche: attentato al pudore, profanazione, contaminazione, o ancora turpidine, impudicizia,seduzione, atto di libidine.Dando uno sguardo all’etimologia di questo vocabolo si può citare il latino
“stuprum” che significa onta, disonore, e che sembra potersi riferire alla radice “tup”, “stup” affine a “stud”: ottundere, urtare. Si può inoltre risalire al sanscrito “tup-ami” che vuol dire colpisco, offendo; al tedesco “stumpf”; l’olandese “stomp”:
ottuso che potrebbe riferirsi alla radice “stup” stupire.
In riferimento al greco troviamo ”t?pt?“ che significa batto, colpisco, ferisco, percuoto da vicino, in contrapposizione con il termine “ßa???”: getto, lancio con idea di lontananza. In questo senso, appare evidente come la parola stupro si
contrapponga dunque anche al termine “s?µßa???”: simbolo, che assume vari significati: quello di unire nel senso di mettere insieme, quello di spingere l’uno contro l’altro, sia in senso aggressivo (fare, azzuffare), sia in senso emulativo (confrontare) sia, infine, in senso associativo (contribuire).

VIOLENZA E STUPRO NELLA LINGUA ARABA
M.L. Mougal (1996)

Molto interessante appare dare uno sguardo all’etimologia ed alla derivazione della parola stupro nella lingua Araba. A tal proposito notiamo che Khreg è il termine arabo che viene utilizzato per descrivere l’idea dello strappo, della separazione, dello scoprimento con forza.
Chram è, invece, il termine arabo che viene utilizzato per descrivere l’idea del dimezzare, spezzare in due, sezionare, tagliare. Una frase contenente questo verbo definisce una persona indegna o senza onore.
E’ interessante la stretta relazione che esiste tra violenza e perdita dell’onore.
Dunque, lo stupro nella cultura araba: “Nasce dal tabù che colpisce il corpo della donna e l’onore dei familiari. Viene collegato al concetto di disonore. La vittima si deve rinchiudere nel silenzio, soprattutto quando il colpevole è un
membro della famiglia e l’incubo si svolge tra le mura domestiche”.
Se la ragazza è giovane, l’evento porta conseguenze sociali tali che possono causare il suicidio o il decesso della vittima a causa dell’aborto provocato secondo i metodi tradizionali condivisi dalla comunità (il ferro da stiro bollente posto sul ventre della donna e l’introduzione nella vagina di una pietra nera che provoca bruciori tremendi e che favorisce l’espulsione del feto senza vita), contrari ad ogni regola igienica. A seguito dello stupro, la perdita della verginità compromette la possibilità di contrarre matrimonio, e la gravidanza emargina definitivamente la donna, la quale, se viene rifiutata dalla propria famiglia, viene anche emarginata e collocata al livello più basso della società, perché “la legge ignora i bambini avuti fuori dal matrimonio”.

LO STUPRO: DIGRESSIONE MITOLOGICA

Nella mitologia greca la divinità dell’inesplicabile, il grande stupratore è Pan, dio fallico venerato soprattutto nell’Arcadia.
Egli fu abbandonato dalla madre Driope, la quale rimase inorridita alla sua vista: il piccolo, appena nato, era barbuto con le corna ed i piedi di capra. Il padre Ermes lo avvolse in una pelle di lepre e lo portò sull’Olimpo, lì lo fece sedere tra gli dei, i quali risero a tale vista e lo chiamarono ?a? (ogni cosa, qualunque cosa, tutto).
L’omologo del dio Pan appare anche come la più antica divinità tra gli Indioscon il nome di Kokhopelli, ed è una divinità deforme, con la gobba, che suona il flauto anch’essa. Dunque anche tra gli Indios americani Kokhopelli è il divino che stupra
donne vergini e bambini e che suona melodiosamente il flauto. Anch’egli è solo, brutto, itifallico ed artista.
Nella figura del Pan, come in quella di Kokhopelli, si fondono sia l’elemento fallico che attributi che evocano l’abbandono orgiastico, l’oscurità, il terrore, gli inferi. Egli è la rappresentazione della forza selvaggia della natura.
Nella tradizione greca vengono ricordate la sua unione notturna con Selene (la luna che in un primo momento lo rifiutò e poi ne fu sedotta) ed altre unioni invece violente con Pitis (che per sfuggirgli si trasformò in pino), con Siringa (che si trasformò in una canna e con la quale Pan fabbricò il flauto) ed Eco (della quale rimase solo la voce).
Tutte le donne avvicinate da Pan fuggono terrorizzate e la musica del dio incute improvviso ed irrazionale spavento ( a?????: il panico).
Sempre in ambito mitologico ritroviamo il mito relativo al mutamento delle stagioni, cioè il rapimento di Core ( ???? :fanciulla) da parte di Ade, il dio degli inferi. Ade si impossessa della fanciulla, figlia di Demetra e di suo fratello Zeus, e la fa sua, destinandola a vivere parte dell’anno negli Inferi, quale sua sposa, e poi, vinto dal dolore della madre, parte dell’anno presso di lei; si può parlare anche in questo caso di stupro, poiché Core era vergine e nipote di Ade.
Si narra che Ade portasse un casco di pelle di animale che gli copriva parte del volto e lo rendeva invisibile, dunque, nell’immaginario collettivo, egli rappresenta il non esistente, lo sconosciuto e l’invisibile.
Appare interessante riflettere sul significato di questo mito, nel quale la fanciulla divina, e vergine, viene rapita, stuprata e sposata da un Dio oscuro ed infero.
E’ possibile vedere come le due divinità Pan e Ade condividano un loro legame con l’oscurità, la paura, la natura, la generazione, gli inferi. Entrambi agiscono il rapimento e lo stupro.
Appare evidente, dunque, la metafora contenente l’equazione: violenza sessuale = morte.
Ad ogni migliore fine, occorre ricordare la permanenza nel costume de “la fuitina”, il famoso ratto finalizzato al matrimonio, nella tradizione siciliana e araba.
Sempre rimanendo in ambito mitologico, non può non citarsi ed esaminare la storia di Pandora, inviata da Zeus ad Epimeteo, con il suo vaso ricolmo di tutti i mali, quale punizione a causa del tentativo riuscito di Prometeo (fratello di
Epimeteo) di rubare il fuoco, per darlo agli uomini e così migliorarne la condizione.
Pandora rappresenta, dunque, il femminile inteso, però, come simbolo contraddittorio di morte e seduzione.
Questa digressione nella mitologia può aiutarci a comprendere meglio le dinamiche e le motivazioni inconsce che insistono intorno al fenomeno dello stupro.
Infatti il mito è un racconto che interpreta le pulsioni profonde e mette in scena, attraverso le metafore degli antichi, che interpretano temi archetipici narrati
nei drammi.
Il mito, nella cultura greca, assume il significato di parola, notizia, narrazione racconto, novella, intesi come leggenda, favola, in contrapposizione al temine logos: discorso, caratterizzato dall’argomentazione razionale.
Nella narrazione mitica si attua la soggettivazione della realtà esterna e l’oggettivazione del mondo interiore, e nel mito sono raffigurate le diverse fasi di sviluppo della coscienza individuale, e, poi, sociale collettiva.
L’operare dell’inconscio nell’individuo si trasforma, dunque, attraverso la trasposizione collettiva, che tenta di comprenderlo e spiegarlo, nella sua maschera incoscia ed onirica, in mito: l’uomo è così in grado di portare a livello di
coscienza i suoi contenuti inconsci (che si basano su temi archetipici) e, conseguentemente, di dissolvere la coercitività di questi ultimi.
Gli dei, mitici, dunque, non sono altro che metafore di comportamenti archetipici, ed i miti, messe in atto archetipiche.
In altri termini, si potrebbe anche dire che nel mito si identifica la metafora quale espressione figurata dell’inesprimibile) dell’operare dell’archetipo in sé,
attraverso la stessa immagine archetipica realizzabile, o già realizzata, dall’uomo.
In psicologia analitica, l’archetipo rappresenta la parte ereditaria della psiche:
quei modelli strutturanti di prestazioni psicologiche collegati all’istinto. un’entità ipotetica, non rappresentabile in se stessa ed evidente soltanto attraverso le sue manifestazioni.
Gli archetipi sono le immagini primordiali, i tipi primitivi: il termine deriva dall’unione di a???, che significa principio, primato, origine, antichità, con t?pt?, che significa forma, modello.
Ancor più illuminante è lo scoprire che il termine t?p??, originariamente spiegabile come percossa, colpo, impressione visibile fatta in un oggetto, percuotendo o premendo, e’ da ricondurre al verbo t?pt?, già citato sopra, che significa colpisco, batto, urto ed ai sostantivi t?pa?, che significa martello, e t?µpa???, che significa strumento musicale a percussione.
La comune radice etimologica svela, conferma ed evidenzia come concetti apparentemente diversi, quali l’archetipo e lo stupro, in realtà si identifichino in radice, rendendo così evidente la natura primigenia, profonda e primitiva della violenza sessuale: colui il quale agisce la violenza sessuale è travolto dalla forza generatrice primitiva, animale??della natura e quindi? da contenuti archetipici inconsci, che lo portano a vagare tra un sentimento di immenso potere, e di unicità, e quello di irrilevanza, che proietta sulla sua vittima, destinata a far fruttare il seme che l’ha fecondata.
Il contenuto archetipico “afferra la psiche con una sorta di forza primitiva e la costringe a valicare l’ambito umano. Provoca esagerazione, boria (inflazione!), perdita del libero arbitrio, illusione e commozione nel bene come nel male”
(C.G.Jung, O, 7, p.71).
Ciò è confermato dal fatto che, durante il trattamento psicoanalitico della durata di svariati anni, giunge un momento durante il quale, si tratti di uomo o di donna, si manifestano fantasie di violenza sessuale, talvolta agite, talvolta subite,
talvolta entrambe le cose.
Detto ciò, è possibile concludere questa riflessione sull’origine ed il significato del termine, asserendo che l’atto di stupro rappresenti l‘agito di colui che non riesce a simbolizzare i propri impulsi profondi.

SOGNO DI UNA PAZIENTE AFFETTA DA NEVROSI FOBICA

“Una bella donna è seduta su un motorino ed aspetta. Arrivano dei ragazzi, la circondano ed uno di loro le strappa la camicia. Sta piovendo ed io vedo la pelle abbronzata della donna, il suo seno nudo e la camicetta strappata. La pioggia la
bagna, lei china il capo all’indietro, ed il ragazzo che l’ha aggredita la violenta. Lei subisce, ma non ha alcuna paura: è molto sexy, io la trovo bellissima. Vedo lei ed il ragazzo in un letto con lenzuola bianche. Lei poggia il capo sul petto di lui e lui le carezza i capelli”.
Si tratta del sogno di una paziente che evoca, e sente, che la seduzione femminile e la potenza della bellezza che soggioga, rendono la femmina padrona del maschio che lei provoca.

FATTO DI CRONACA

Una donna, a seguito di una violenza carnale, concepì e portò avanti una gravidanza fino al parto, ma, al momento della nascita, rifiutò di riconoscere il figlio in quanto sentito estraneo, non voluto.
Questa donna è un chiaro esempio, con il suo comportamento, di come possa verificarsi nella vittima un doppio processo di negazione, che si propone in sé e per sè, evidentemente, quale risultato più tragico della violenza carnale, nell’animo della vittima ed anche, forse, perfino in quello dell’aggressore.
Dunque, con il proprio atto, l’aggressore ha negato la sua vittima come persona, impedendole di esprimere una scelta e, comunque, di dare un significato all’atto generativo, trattandola come un animale, come una semplice fattrice, come
un oggetto privo di volontà individuale, ovvero, mortificandola (mortuus facere), umiliandola (humus = terra), ed e’ proprio in ciò che si ravvisa il senso ed il significato più intimo, ancestrale e profondo della violenza perpetrata.
Rifiutandosi di essere madre, ma non sottraendosi alla maternità vissuta come semplice processo biologico (diritto del nascituro – in natura – comunque di nascere per perpetuare la specie), questa donna finisce paradossalmente per comportarsi proprio come il suo aggressore l’aveva vissuta: negandosi come
persona e riconoscendosi solo come oggetto di piacere e di riproduzione al servizio (eugenetico) del maschio dominante.
In questo caso, dunque, la donna si è trovata ad essere doppiamente vittima del suo aggressore, in primo luogo, per la violenza fisica subita, in secondo luogo, per quella psicologica, che annulla la sua realtà biologica. Ella, infatti, rimane prigioniera di una circolarità indotta dal cosiddetto EFFETTO PIGMALIONE, che si attua appunto quando qualcuno (in questo caso l’aggressore) riesce a far sì che
un’altra persona si senta, e si convinca di essere, proprio come lui aveva stabilito che fosse: e si comporti di conseguenza.
Si può osservare, inoltre, una reazione di colpevolizzazione secondaria, alla quale deve essere data la debita e necessaria importanza. La vittima si sente colpevole per e di aver attirato l’aggressore a sé.
La ripresa emotiva può essere caratterizzata dal passaggio attraverso uno stato di vera e propria depressione: la vittima rivive dentro di sé l’evento subito mentre riemerge in lei violentemente la rabbia, che può essere vissuta come rabbia nei confronti di se stessa. In tal modo, la depressione, simbolizza la notevole aggressività autodiretta esistente nel soggetto.

UN CASO ALGERINO

da “Trauma sessuale, sofferenza psichica, la prigione di una algerina violentata a 13 anni poi testimone di infanticidi a ripetizione” di Ourida Belkacem Docente-Ricercatore presso il Centro Universitario di Aiuto Psicologico – Università di Algeri.
Riportiamo l’esempio, triste, ma purtroppo reale di un caso di stupro, e non solo, subito da una donna algerina.
La signora X è stata obbligata a lasciare la scuola a 13 anni e mezzo, perché il di lei cugino aveva affermato di “averla vista con qualcuno”.
Il di lei padre, quindi, le strappò i libri ed i quaderni, la colpì violentemente con la cintura causandole ferite che, senza cure, si infettavano continuamente, poi la tenne in casa sotto sequestro e la minacciò di morte. La consegnò al cugino dicendogli: “lei è vergine, tu puoi scegliere, se vorrai averla lei sarà tua”.
La signora X si sposò a 18 anni ed ebbe tre figli due femmine ed un maschio. Tentò molti suicidi, l’ultimo dei quali la portò ad essere seguita e curata, per un anno, da uno psichiatra che fu costretto ad andare in esilio perché fu minacciato dai terroristi. Autore dello stupro, del tradimento e dell’inganno è il cugino: marito della signora X .
I suoceri della signora sono fratelli: costituiscono, dunque, una coppia incestuosa.
La signora conobbe il cugino quando aveva 12 anni (lui 17), perché lui andava a trascorrere il fine settimana da lei e la aiutava a fare i compiti.
“Avevo appena superato l’esame di sesta, lo consideravo come un semplice cugino. A dodici anni e mezzo mi ha violentata”.
La signora X, da bambina, veniva violentata dal cugino regolarmente nella sua camera, mentre le sorelle dormivano. “Io mi mettevo dei jeans stretti, mi chiudevo nell’armadio, ma era inutile … e sono rimasta incinta. Lo sapevano mia madre e mia sorella perché ho dovuto abortire tre volte. Io non dimenticherò mai l’orrore: con il ferro da stiro bollente sul ventre e mio cugino che ci saltava sopra”.
Entrava in un vero e proprio stato d’angoscia quando si avvicinava il fine settimana perché sapeva che doveva cedere ai capricci del cugino e rimanere in silenzio.Cedeva alle richieste del giovane, nel terrore, nel silenzio perché sapeva
che il padre l’avrebbe condannata: “lui l’avrebbe saputo, mi avrebbe presa per una provocatrice, mi avrebbe ritenuta responsabile di questi atti e mi avrebbe tagliato la testa”. La nonna della signora X, rimasta vedova, aveva dovuto sposare, contro il suo volere, il fratello del marito “che non ha smesso di metterla incinta. Mentre aspettava il suo sesto bambino, si è uccisa bevendo il liquido della pietra nera”. La stessa pietra nera che la signora X ha dovuto utilizzare per abortire facendola penetrare nella sua vagina. I bruciori atroci al basso ventre, infatti, causano l’aborto.
La signora X si sente ancor oggi in preda alla vergogna, al senso di colpa, all’angoscia di morte, dipendenti dal non aver potuto mai urlare, mai dire di no, mai battersi per se stessa, per la sua libertà. Non potendosi difendere con le parole,
colei che era la vittima, non una persona, si chiudeva nella sua camera e sprofondava nella disperazione rompendo tutto quello che le capitava in mano.
Anche la lite coniugale era uno sfogo: una volta si armò di un coltello per rompere un materasso. Un’altra volta tentò di mutilarsi; usciva fuori di casa e tentava il suicidio senza mai riuscirci “anche la morte prova disgusto per me!”.

PSICOLOGIA DELLO STUPRATORE

Colui che agisce lo stupro non ha possibilità, nel momento dell’azione, di simbolizzare: è cieca preda dei suoi istinti, e perciò si identifica, in ogni tempo, con i contenuti più profondi dei miti, pervasi di archetipi inconsci, con conseguente scotomizzazione del Super Io.
Lo stupratore, infatti, oltre che ipersessuale, o irresistibilmente vittima dei ferormoni o del fascino (effetto alone) della sua vittima appare ipomaniacale nel suo agire umano e, come contrapposto, vive una conseguenziale depressione che proietta sulla vittima.
Tutte le indagini cliniche effettuate riconoscono gli stupratori come uomini essenzialmente deboli, inadeguati, insicuri della propria identità psico-sessuale e, di solito, non integrati socialmente.
Un primo esame della personalità dello stupratore mette in evidenza un mix di sessualità e violenza: ma un più attento studio rivela chiaramente che lo stupro soddisfa, primariamente, bisogni non sessuali, e che, quindi, manifestano
inespresse ed altrimenti inesprimibili volontà di potenza e rabbia. Entrambi i sentimenti in lui rimasti privi di evoluzione e pure inespressi nel periodo infantile con la propria madre, o che sono stati indotti dalla negatività della sua esistenza, che hanno frustrato la sua gioia di vivere ed il suo desiderio di essere accettato, esplodono, allora, contro una vittima anonima.
La psiche dello stupratore appare dunque sempre relativamente carente di fantasia erotica.
Lo stupratore è comunemente un soggetto privo di disfunzioni sessuali, quali l’impotenza o l’eiaculazione precoce e ritardata, che, spesso, invece, si legano a diversi quadri patologici caratterizzati da manifestazioni di ansia, di depressione ed a conflitti intrapsichici.
Nel comportamento di alcuni soggetti, si potrebbero rintracciare dei sintomi di FROTTEURISMO (impulso a toccare ed a strofinarsi contro una persona non consenziente) e di SADISMO (perversione sessuale nella quale il soggetto trae godimento dalla sofferenza che infligge ad altri), entrambi comportamenti catalogati nel DSM IV all’interno delle parafilie, a loro volta inserite fra i disturbi sessuali.
In particolare, con il termine sadismo, Sigmund Freud indicava non solo la fusione di sessualità e violenza, ma anche, in alcuni casi, l’esercizio della sola violenza, priva di implicazioni sessuali.
infatti si è notato che alcune volte il piacere può anche derivare dalla vista del dolore altrui, perché, in questo caso, esso risiede, soprattutto, nel senso di potenza risultante dall’essere in grado di infliggere dolore e di possedere il corpo di una persona altra: di dominarla, cioè di essere potente, un animale dominante nel gruppo.
La sfera sessuale si può colorare di contenuti di ripugnanza e di sporcizia, non disgiunti in sé, però, dal bisogno di umiliare il partner anonimo e non: e questo costituisce l’altro lato, oscuro, della medaglia.
Lo stupratore ha scarse capacità di riflessione e di simbolizzazione: egli è posseduto da forze intrapsichiche incontrollabili, che manovrano la sua volontà e lo trascinano, inesorabilmente, verso l’acting out. dunque Egli non riesce a
controllare le sue pulsioni distruttive, spesso anche a causa di un insufficiente controllo dell’aggressività.
Ancora, nella maggior parte degli stupratori, si riscontra una forte compulsione, che si traduce nella tendenza, coercitiva ed illogica, a mettere in atto alcuni comportamenti pur riconosciuti dal soggetto stesso come inadeguati ed
ingiusti, sentiti però come necessari perchè, se non messi in atto, provocano in lui una forte sensazione di angoscia.
In molti stupratori è perciò possibile diagnosticare una sorta di disturbo dipendente di personalità, che si associa alla perversione sessuale.
In questo caso, il soggetto si sente dipendente da un essere che teme e che, perciò, deve distruggere per liberarsene.
Il soggetto si trova quindi ad agire una seduzione narcisistica sessualizzata, indotta da quella che Freud chiama la pulsione d’impossessamento, che si qualifica come imperativo a possedere e dominare l’oggetto, anche in maniera violenta, senza tenere conto delle sue esigenze e peculiarità.
L’attitudine alla violenza sessuale può esprimersi, però, anche attraverso forme non eclatanti, come l’instaurazione di situazioni di plagio nelle relazioni di coppia, nei rapporti di lavoro (dove il superiore può assumere le caratteristiche del
tiranno) ed anche nei rapporti tra medico/psicoterapeuta e paziente, discente e allievo, tutore e pupillo et similia, così sostituendosi i limiti funzionali della necessaria subordinazione, funzionale e non, al carisma del superiore.
Alcuni professionisti, dunque, a volte si rendono inconsciamente protagonisti, a causa della loro superiorità psicologica, di veri e propri abusi di transfert. In tutti
questi casi, infatti, gioca un ruolo fondamentale l’azione influente di un plagio subdolo, dipendente dal potere professionale, agita fuori del giusto.

PSICOLOGIA DELLA VITTIMA DELLO STUPRATORE

La violenza sessuale viene di solito vissuta dalla vittima come un’ invasione violenta ed ineludibile della sua vita fisica e psichica, ed ingenera, perciò, in lei, un sentimento di panico incontrollabile.
E’ possibile, talvolta, apprezzare, in taluni soggetti, una successiva fase di aggiustamento, caratterizzata dall’insorgere di uno stato di autodifesa che conduce la vittima a ritirarsi in se stessa. In questa fase, la vittima, solitamente, se
sostenuta adeguatamente, anche con tecniche psicoterapeutiche, può sperimentare “veramente” il significato personale e psicologico profondo della violenza sessuale e trovare, quindi, la forza necessaria per “superarla” ed andare oltre. Le reazioni emotive usuali tipiche della vittima della violenza sessuale sono:

?? stato di shock
?? umiliazione
?? paura
?? tristezza
?? depressione
?? stato di vera e propria angoscia


Comunque, l’esperienza di violenza sessuale appare difficilmente
dimenticabile: essa normalmente finisce per restare sempre un incubo immanente nella psiche, proprio per le caratteristiche mentali dell’agito.

LA VIOLENZA SESSUALE COME REATO

Dando un sguardo ai libri di storia, si apprende che nel Diritto Romano, avendo la lex iulia de adulteriis stabilito che ogni relazione sessuale fuori del matrimonio potesse essere perseguita da qualunque cittadino romano mediante una accusatio pubblica, vennero di conseguenza create due distinte figure
criminali: l’adulteriunm e lo stuprum. La distinzione fra i due reati si fondava sul fatto che la relazione extra-matrimoniale si avesse con donna già unita ad altri con iuste nuptiae o meno. La distinzione fra i due termini per altro non era rigorosa: la stessa lex iulia usava adulterium per indicare promiscuamente i due reati. Contro i colpevoli di stuprum, era concessa l’accusatio pubbilica iure extranei, che si prescriveva in cinque anni. Le leggi augustee fissarono alcune categorie di donne in quas struprum non committitur : con queste, secondo la disposizione della lex iulia de maritandis ordinibus, non si poteva contrarre matrimonio. Una completa
trasformazione del regime giuridico dello stupro si iniziò con Costantino, che restrinse il diritto d’accusa contro l’adulterio ai prossimi congiunti. Nel diritto giustinianeo gli estranei non hanno più facoltà di portare l’accusa contro i colpevoli di stupro: l’azione è concessa solo a coloro che sono vittime della violenza per cui il reato tende a fondersi con il crimen e con il ratto. Continuando a sfogliare, si nota che, nel Diritto Canonico, invece, il termine stupro indica l’oppressione carnale di donna vergine.
Lasciando i libri di storia, ed avvicinandoci alle moderne prescrizioni codicistiche, si osserva che chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringa taluno a compiere o subire atti sessuali è punito
con la reclusione da cinque a dieci anni (art. 609 nonies).
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali, o abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto (artt. 609 quater, 609 sexies, 609 decies), o traendo in
inganno la persona offesa, per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.
Nei casi di minore gravità, la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.
Inoltre, è previsto che, l'imputato, per i delitti indicati in questo articolo, sia sottoposto, con le forme della perizia e con procedure di urgenza, ad accertamenti per l'individuazione di patologie sessualmente trasmissibili, qualora le modalità del
fatto possano prospettare un rischio di trasmissione delle patologie medesime.
In particolare, con la legge 15 febbraio 1996, n. 66 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 42 del 20 febbraio 1996), le norme del codice Rocco sono state radicalmente modificate. All’origine, la violenza carnale veniva considerata
quale reato <> (titolo IX, libro II, c.p.), cioè contro un bene di carattere pubblico, il cui titolare era lo stato e non lavittima. Dal 1996, invece, i reati sessuali sono stati ricondotti tra i reati contro la persona. Il bene giuridico tutelato non è più, dunque, la libertà sessuale in sé, bensì la tutela del soggetto, della sua integrità fisica, psicologica, spirituale, morale e sociale da fatti di violenza sessuale.
E’ stata inoltre operata l’unificazione delle fattispecie di violenza carnale e atti di libidine violenti in una sola fattispecie di <>.
La prima, si riferisce a tutti quei comportamenti che prevedono la congiunzione carnale, ovvero l’introduzione del pene nel corpo, mentre i secondi, fanno riferimento a quei comportamenti, diversi dalla congiunzione carnale, che
pure caratterizzano i rapporti erotici interpersonali.
La legge, naturalmente, parla di violenza sessuale quando l’atto sessuale e’ compiuto costringendo, a soggiacere od a subire, il “partner” con violenza o minaccia, o avvalendosi del proprio ruolo di potere sullo stesso, o avvalendosi
delle proprie condizioni di superiorità psichica rispetto ad una persona che può essere malata di mente o che può trovarsi, per ragioni obiettive e soggettive, in uno stato di inferiorità psicologica (come, ad esempio, può accadere nel rapporto
medico - paziente o in quello analista – paziente) rispetto all’agente.
Si può in sostanza dire che, allo stesso modo che per qualsiasi tipo di aggressione, lo stupro è un atto violento operato in mancanza di consenso del “partner” e costituisce, dunque, una forma di appropriazione.
Il fine ultimo dello stupratore è quello di “avere” il corpo della donna (del soggetto posseduto), di possederlo completamente, di sottometterlo alla sua volontà di potenza.
Lo stupratore percepisce la donna (il corpo dell’altro) sia come un essere odiato, sia come una proprietà agognata che, in quanto tale, deve essere aggredita brutalmente e posseduta completamente.
Invero, il reato di violenza sessuale non è caratteristico di un’epoca particolare, o di una determinata classe sociale, o ancora di una precisa e limitata tipologia caratteriale: ed ha vissuto valutazioni e collocazioni diverse, nei tempi, legate alla cultura del momento in un luogo qualsiasi, ma non ha mai goduto di buona fama o è stato privilegiato di indifferenza.
Lo stupratore è potenzialmente qualsiasi essere umano: l’unica forma di garanzia verso il corpo sociale è quella possibilità di sviluppare e conseguire la capacità di controllo della propria aggressività e la capacità di simbolizzazione che
tutti i cittadini debbono arrivare ad avere.
La violenza sessuale e’ stata definita, nel nostro codice penale, come un atto di violenza contro la morale e contro la libertà sessuale: dove, per morale, si intende la pratica del bene, studiata dalla scienza dei costumi, la quale ritrova ed
insegna le regole che debbono dirigere l’attività libera dell’uomo. In questo senso, per morale, si intende la regola, la misura, la valutazione delle azioni umane.
Anche se oggi, nell’ambito di una riforma, tuttavia “in fieri”, è prevalsa la definizione che contempla la violenza carnale come un reato contro la persona, ciò non toglie che essa costituisca, nel contempo, anche offesa alla morale nel senso
suddetto. Quindi, abusare sessualmente significa anche trasgredire una regola relativa al costume, alla consuetudine, all’abitudine: rompere con l’uso comune.
I principi fondanti la riforma suddetta tendono a rafforzare la posizione, in quanto soggetto, del soggetto passivo di violenza sessuale non solo quanto alla definizione del reato, ma anche nell’aggravamento delle pene per gli aggressori.
Presso i popoli primitivi esisteva la possibilità di contenere e scongiurare, preventivamente, le trasgressioni attraverso la partecipazione a riti misterici o di iniziazione. Durante tali riti, “sacri”, era possibile agire sia l‘incesto che la violenza
carnale. Le pulsioni dell’essere umano venivano addirittura contenute attraverso cerimoniali che, nell’esaltare la “sacralità” del rito, nascondevano e giustificavano
la brutalità originaria dell’essere umano che trova espressione nell’atto violento e nella sua pulsione.
Tali cerimonie permettevano di conoscere, di concentrare e controllare gli “sfoghi umani” durante la celebrazione dei riti, per poi continuare a rispettare la regola relativa al proprio uso e costume sociale: cosicché lo stesso rituale finiva
per rappresentare, nella trasgressione, il rispetto della regola socialmente codificata.

“I coccodrilli, quando inghiottono grossi bocconi di carne, sembrano piangere.
Le loro lacrime non indicano però ne’ dolore ne’ rimorso.
La verità è che nella loro voracità inghiottono spesso
pezzi così grandi che non passano nella faringe.
Allora boccheggiano violentemente; il sacco lacrimale
viene compromesso: ecco perché i coccodrilli
sembrano piangere mentre mangiano le loro vittime.”
(Walter Kramer e Gotz Trenkler,
Dizionario dei luoghi comuni e delle credenze popolari.
Ed. Sperling & Kupfer, 1999)



BIBLIOGRAFIA

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Rivista di cultura psicoanalitica Borla Dicembre1999-gennaio2001
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K.J. Grergen-M.M. Gergen: "Psicologia Sociale" Bologna: Il Mulino 1990
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E. Altavilla: "Trattato di psicologia giudiziaria" Torino, Utet, 1948
F. Ferracuti (a cura di) con la collaborazione di F. Bruno e M. C. Giannini: “Trattato di
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K. Kerenyi: “Gli dei e gli eroi della grecia”, Milano - Garzanti Editore, 1963
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